
Per una decrescita giusta e ecosocialista
L’oggettiva necessità di una rivoluzione ecosocialista, anticolonialista e femminista. Un testo che dalla radicalità ecologista costruisce un nuovo programma anticapitalista che superi le impasse del Novecento.
- Introduzione
- 1. La necessità oggettiva di una rivoluzione ecosocialista, antirazzista, antimilitarista, anticolonialista e femminista
- 2. La follia del militarismo e dell’imperialismo su un pianeta in crisi
- 3. Il mondo per cui combattiamo
- 4. Il nostro metodo di transizione
- 5. Le grandi linee direttrici di un programma mondiale di decrescita giusta, ecosocialista
- 5.1. Distribuire le ricchezze per prendersi cura degli esseri umani e del nostro ambiente di vita, gratuitamente
- 5.2. Sviluppare i beni comuni e i servizi pubblici contro la privatizzazione e la mercificazione
- 5.3. Eliminare le attività economiche inutili o dannose
- 5.4. Uscire dall’industria agroalimentare, dalla pesca industriale e dall’industria della carne
- 5.5. Per uscire al più presto dai combustibili fossili e dall’energia nucleare, socializzare l’energia e la finanza senza indennizzi o riscatto
- 5.6. Garantire l’occupazione per tutte/i, assicurare le riqualificazioni necessarie in attività ecologicamente sostenibili e socialmente utili
- 5.7. Lavorare meno, vivere e lavorare meglio, vivere una buona vita
- 5.8. Garantire l diritti delle donne sul proprio corpo
- 5.9. Internazionalismo: contro imperialismi e nazionalismi, imporre la giustizia climatica
- 5.10. Promuovere una rivoluzione culturale basata su un attento rispetto per il vivente e per “l’amore per la Madre Terra”
- 6.1. Piani pubblici per proteggere le classi popolari dagli effetti del cambiamento climatico
- 6.2. La necessità di un modello di sviluppo alternativo
- 6.3. Le multinazionali, gli Stati imperialisti e le “élite” locali devono pagare il conto
- 6.4. Auto-organizzazione delle lotte popolari e lotta per la democratizzazione
- 6.5. Controllo pubblico e protezione delle risorse naturali. Zero deforestazione. Rispettare le popolazioni indigene
- 6.6. No all’agrobusiness. Sovranità alimentare e riforma agraria
- 6.7. Programma di costruzione di alloggi sociali e riforma urbana popolare
- 6.8. Decolonizzazione della conoscenza, riforma del sistema educativo
Questo manifesto è stato adottato per la discussione della IV Internazionale: lo pubblichiamo per le sue novità ideali e programmatiche
Introduzione
La nostra era è quella di una crisi storica per l’alternativa socialista. La proposta di una società socialista, in risposta alla barbarie distruttiva del capitalismo, ha perso gran parte della sua credibilità.
Una delle ragioni principali di questa crisi è il fallimento dei progetti che si dichiaravano socialisti nel XX secolo, sia nella forma socialdemocratica – che non ha mai osato mettere in discussione il sistema capitalista – sia nel “socialismo reale” dell’URSS, dove la rivoluzione del 1917 fu tradita dalla dittatura di una casta burocratica guidata da Stalin. Ciò che hanno in comune stalinismo e socialdemocrazia è anche la loro totale trascuratezza della questione ecologica, a favore di una politica di “crescita” a tutti i costi, che ha portato a notevoli disastri ambientali.
Se la Quarta Internazionale pubblica questo Manifesto nel 2025, è perché siamo convinti che una rivoluzione socialista è più che mai necessaria, non solo per porre fine al potere dei parassiti sfruttatori, ma anche per salvare l’umanità da una catastrofe ecologica senza precedenti nella storia umana. Questi due obiettivi sono indissolubilmente legati.
Tuttavia, il socialismo che proponiamo è radicalmente diverso dai modelli che hanno dominato il secolo scorso: è rivoluzionario, democratico, femminista, antirazzista, anticolonialista ed ecologico. Usiamo il termine Ecosocialismo ormai da alcuni decenni, perché siamo convinti che le sfide poste dalla crisi ecologica richiedano una riformulazione del progetto socialista. Il rapporto con il nostro pianeta, il superamento della “frattura del metabolismo” (Marx) tra le società umane e il loro ambiente di vita, e il rispetto per l’equilibrio ecologico del pianeta non sono solo capitoli del nostro programma e della nostra strategia, ma il loro filo conduttore.
Senza mai abbandonare il patrimonio di idee del marxismo rivoluzionario, che hanno sempre ispirato l’azione e il pensiero della Quarta Internazionale, stiamo cercando, in questo Manifesto Ecosocialista, di contribuire a formulare una prospettiva rivoluzionaria in grado di affrontare le sfide del XXI secolo. Una prospettiva che trae ispirazione dalle lotte sociali ed ecologiche, e dalle riflessioni critiche autenticamente anticapitaliste che si stanno sviluppando in tutto il mondo.
1. La necessità oggettiva di una rivoluzione ecosocialista, antirazzista, antimilitarista, anticolonialista e femminista
Il capitale trionfa, ma il suo trionfo lo immerge nelle contraddizioni insormontabili evidenziate da Marx. Di fronte a queste, Rosa Luxembourg emise il suo avvertimento nel 1915: “Socialismo o barbarie”. L’attualità di questo avvertimento è più scottante che mai, poiché la catastrofe che cresce intorno a noi è senza precedenti. Alle piaghe della guerra, del colonialismo, dello sfruttamento, del razzismo, dell’autoritarismo, delle oppressioni di ogni genere, si aggiunge un nuovo flagello, che esaspera tutti gli altri: la distruzione accelerata da parte del capitale dell’ambiente naturale da cui dipende la sopravvivenza dell’umanità.
Gli scienziati identificano nove indicatori globali di sostenibilità ecologica. I limiti di pericolosità sono stimati per otto di essi. A causa della logica capitalista dell’accumulo, almeno sei sono già oltrepassati: clima, biodiversità, uso del suolo, rifiuti di plastica, acqua dolce, cicli di azoto e fosforo. Il sistema mondiale che sostiene la vita è distrutto. I poveri, donne e uomini, sono le principali vittime, specialmente nei paesi poveri.
Sotto la frusta della concorrenza, la grande industria e la finanza rafforzano la loro presa dispotica sugli essere umani e sulla Terra. La distruzione continua, nonostante le grida di allarme della scienza. Il desiderio di profitto, come un automa, richiede sempre più mercati e sempre più beni, quindi più sfruttamento della forza lavoro e saccheggio delle risorse naturali.
Il capitale legale, il capitale criminale e la politica borghese si intrecciano sempre più. La Terra è comprata a credito dalle banche, dalle multinazionali e dai ricchi. I governi strangolano sempre più i diritti umani e democratici attraverso la repressione brutale e il controllo tecnologico. Un nuovo fascismo offre i suoi servizi per salvare il sistema attraverso la menzogna, il razzismo, il sessismo e la demagogia sociale.
È riduttivo dire che i limiti della sostenibilità sono superati anche a livello sociale.
Con i loro yacht, i loro jet, le loro piscine, i loro SUV, i loro gioielli, la loro alta moda e le loro lussuose case nei quattro angoli del mondo, l’1% più ricco possiede tanto quanto il 50% della popolazione mondiale. La “teoria della ricaduta graduale” è un mito. La povertà sta aumentando anche nei paesi “sviluppati”. I redditi da lavoro sono ridotti spietatamente, le protezioni sociali – laddove esistono – vengono smantellate. L’economia capitalista galleggia su un oceano di debiti, sfruttamento e disuguaglianze.
La distribuzione iniqua delle risorse genera rischi ambientali tra diversi gruppi etnici-razziali. Le popolazioni di colore e razzializzate sono quelle che di solito abitano i territori più colpiti dall’inquinamento, con maggiore concentrazione di rifiuti, così come le aree a rischio prive di pianificazione urbana come pendii e colline. Il razzismo ambientale è un altro ritratto dell’esclusione che il capitalismo impone alle popolazioni razzializzate e povere.
Le disuguaglianze e la discriminazione colpiscono in particolare le donne, che continuano a fornire la maggior parte del lavoro di cura, sia esso gratuito o a pagamento. Ricevono solo il 35% del reddito da lavoro. In alcune regioni del mondo (Cina, Russia, Asia centrale), la loro quota è in calo, a volte in modo significativo. Oltre al lavoro, le donne vengono attaccate su tutti i fronti come donne – dalla violenza sessista e sessuale al diritto al cibo, all’istruzione, al rispetto e al diritto di controllare il proprio corpo.
Mentre gli anziani vengono scartati, le vite delle generazioni future vengono mutilate in anticipo. La maggior parte dei genitori non crede più che i loro figli vivranno meglio di loro. Un numero crescente di giovani osserva con terrore, rabbia o tristezza la distruzione del loro mondo, violentato, sventrato, affogato nel cemento, inghiottito nelle fredde acque del calcolo egoistico.
I flagelli della carestia, dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione che erano arretrate alla fine del XX secolo, riemergono ora a causa di una convergenza catastrofica di neoliberismo, militarismo e cambiamento climatico: quasi una persona su dieci soffre la fame, quasi uno su tre soffre di insicurezza alimentare, più di tre miliardi di persone non possono permettersi una dieta sana. Centocinquanta milioni di bambini sotto i cinque anni sono rachitici per la fame.
La promessa di un mondo pacifico evapora. I conflitti regionali sono in aumento. La spesa militare continua a crescere. Nel 2021, ha superato per la prima volta la soglia dei 2000 miliardi di dollari, di cui oltre 800 miliardi per l’esercito statunitense. L’inasprimento della rivalità inter-imperialista tra gli Stati Uniti e la Cina si sta acuendo. Un confronto nucleare globale tra queste potenze e i loro rispettivi alleati segnerebbe la fine della storia umana. Gli ambienti capitalisti dominanti non lo vogliono, ma sono sempre meno in grado di impedirlo.
La Terra può offrire a tutti una vita dignitosa, ma il capitalismo è un modo di predazione maschilista, razzista, bellicoso, autoritario e mortale. Il produttivismo è distruttivismo. In due secoli, ha portato l’umanità a una profonda impasse ecosociale.
Il cambiamento climatico è l’aspetto più pericoloso della distruzione ecologica, è una minaccia per la vita umana senza precedenti nella storia. La Terra rischia di diventare un deserto biologico inabitabile per miliardi di poveri che non sono responsabili di questo disastro. Per fermare questa catastrofe, dobbiamo dimezzare le emissioni globali di anidride carbonica e metano prima del 2030, e cancellarle prima del 2050. Quindi come priorità bandire i combustibili fossili, l’agroindustria, l’industria della carne e l’ipermobilità… vale a dire produrre meno globalmente.
Da un lato, la follia dell’accumulazione capitalista obbliga l’umanità a organizzare urgentemente una decrescita globale del consumo finale di energia e, quindi, della produzione materiale e dei trasporti. D’altra parte, tre miliardi di persone, soprattutto nel Sud, vivono in condizioni terribili, a causa del capitalismo e dell’imperialismo. La giustizia richiede che alcuni tipi di produzione crescano per soddisfare i loro enormi bisogni insoddisfatti: buoni sistemi sanitari, case decenti, buon cibo, buona istruzione, trasporti pubblici, sicurezza sociale per tutti…
C’è una via d’uscita da questa contraddizione? Sì, c’è. L’impatto climatico di questi tipi di produzione – soprattutto se pianificato e assunto dal settore pubblico – è molto inferiore a quello della produzione finalizzata a soddisfare le esigenze dei ricchi attraverso la concorrenza cieca sul mercato per il profitto. L’1% più ricco emette quasi il doppio della CO2 del 50% più povero. I poveri emettono molto meno di 2-2,3t di CO2 per persona e per anno (il volume medio da raggiungere nel 2030 se vogliamo raggiungere zero emissioni nette nel 2050 con una probabilità del 50%). Per fornire loro di ciò di cui hanno bisogno dovremmo a malapena moltiplicare questa cifra per tre. Ma poi il vincolo climatico obbligherebbe i ricchi dell’1% a dividere le loro emissioni per trenta in pochi anni. Eppure, si rifiutano di fare il minimo sforzo! Al contrario: vogliono sempre più privilegi!
I governi si sono impegnati a rimanere al di sotto del +1,5% C, a mantenere la biodiversità, a raggiungere i diciassette (molto insufficienti!) obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS) e a rispettare il principio di “responsabilità e capacità comuni ma differenziate” nella crisi ecologica, pur producendo sempre più merci, usando sempre più energia. Possiamo escludere che queste promesse combinate siano mantenute dal capitale. I fatti lo dimostrano:
– Trentatré anni dopo il vertice della Terra di Rio (1992), il mix energetico globale è ancora completamente dominato dai combustibili fossili (84% nel 2020). La produzione totale di combustibili fossili è aumentata del 62% passando da 83 TWH nel 1992 a 136 TWH nel 2021. Le rinnovabili non sostituiscono i combustibili fossili, si aggiungono a essi, offrendo un nuovo mercato per i capitalisti.
– Con la crisi energetica scatenata dopo la pandemia e approfondita dalla guerra imperialista russa contro l’Ucraina, tutte le potenze capitaliste hanno rilanciato il carbone, il petrolio, il gas naturale (incluso il gas di scisto) e il nucleare.
– Il principale responsabile storico del cambiamento climatico, l’imperialismo degli Stati Uniti ha enormi mezzi per lottare contro la catastrofe, ma i suoi rappresentanti politici subordinano criminalmente questa lotta alla protezione della loro egemonia mondiale, quando semplicemente non la negano.
– le misure che i governi dei paesi capitalisti sviluppati attuano sotto il nome di “decarbonizzazione” non solo non riescono ad affrontare l’entità della crisi climatica, ma accelerano anche l’estrattivismo, soprattutto nel Sud, ma anche nel Nord e negli oceani, a scapito delle popolazioni e degli ecosistemi.
– Questa cosiddetta “decarbonizzazione” aggrava l’accaparramento imperialista delle terre e lo sfruttamento della manodopera nel Sud, con la complicità delle borghesie locali (come esemplificato da diversi progetti di investimento basati sull’uso dell’energia solare ed eolica, in particolare nelle “zone franche” dei paesi poveri, al fine di produrre “idrogeno verde” finalizzato alla fornitura delle industrie dei paesi sviluppati).
– “Mercati del carbonio”, “compensazione del carbonio”, “compensazioni della biodiversità” e “meccanismi di mercato” pesano sui meno responsabili, i poveri, in particolare le popolazioni indigene e le popolazioni del Sud in generale.
“Economia circolare”, “resilienza”, “transizione energetica”, “biomimetica” sono formule vuote nelle mani del capitalismo verde neoliberale che genera sempre più disuguaglianze.
Di fronte alla crisi climatica, il feticismo capitalista dell’accumulazione alla fine lascerà solo due opzioni: implementare le tecnologie da apprendista stregone (nucleare, cattura-sequestro del carbonio, geoingegneria…) o lasciare che la “natura” elimini qualche miliardo di poveri nei paesi poveri.
Politicamente, l’impotenza e l’ingiustizia del capitalismo verde fa il gioco di un neofascismo fossile, complottista, colonialista, razzista, violentemente maschilista e LGBTQ-fobico, che non respinge questa seconda possibilità. Una frazione dei ricchi sta marciando verso la catastrofe, scommettendo cinicamente che la loro ricchezza li proteggerà, che si stabiliranno su isole galleggianti, o su un altro pianeta, lasciando morire i poveri, perché tale è la volontà divina.
Mettere sullo stesso piano il capitalismo verde neoliberista e il neofascismo fossile sarebbe irresponsabile. Ma nessuno di questi regimi potrà impedire il riscaldamento globale, con conseguenze disastrose. E anche se le vittime sono più numerose nei paesi poveri, pure i ricchi subiranno perdite drammatiche. Il capitalismo mondiale non progredisce gradualmente verso la pace e lo sviluppo sostenibile, esso retrocede a grandi passi verso la guerra, il disastro ecologico, il genocidio e la barbarie neofascista.
Di fronte a questa sfida, non basta mettere in discussione il regime neoliberista e rivalutare il ruolo dello Stato. Non basta nemmeno fermare la dinamica capitalista dell’accumulazione. Il consumo finale mondiale di energia deve diminuire radicalmente, il che significa produrre meno e trasportare meno globalmente.
Per conciliare i vincoli ecologico-climatici e le esigenze della maggioranza dell’umanità, è indispensabile un completo riorientamento verso la determinazione democratica dei reali bisogni umani e il sostegno e la rigenerazione dell’ecosistema mondale. La giustizia sociale, la giustizia climatica, la democrazia reale e un altro sviluppo sono l’unico modo possibile per rispettare il vincolo ecologico/energetico e soddisfare il legittimo bisogno di sviluppo dei poveri. La decrescita giusta – la decrescita ecosocialista – è una condizione sine qua non di salvataggio.
Uscire dall’impasse produttivista è possibile solo alle seguenti condizioni:
- abbandonare l’idea che la soluzione verrà dalle nuove tecnologie (consumo di energia e di risorse). Decidere saggiamente di utilizzare i mezzi che abbiamo, essi sono sufficienti per soddisfare le necessita’ di tutte.i;
- ridurre drasticamente l’impronta ecologica dei ricchi per consentire lo sviluppo sicuro dei poveri;
- sostituire la produzione di merci con la produzione di valori d’uso;
- determinare democraticamente quali bisogni questi valori d’uso devono soddisfare, e come;
- mettere al centro di questa deliberazione democratica la cura degli esseri umani e degli ecosistemi, il rispetto attento per gli esseri viventi e per i confini ecologici;
- sopprimere di conseguenza le produzioni e i trasporti inutili, rifondare tutte le attività produttive e di consumo.
Queste condizioni sono necessarie ma non sufficienti. La crisi sociale e quella ecologica formano un tutt’uno. Dobbiamo ricostruire un progetto di emancipazione per le/gli sfruttate/i e le/gli oppresse/i. Un progetto di classe che, al di là dei bisogni fondamentali, preferisce l’essere sull’avere. Un progetto che cambia profondamente il comportamento, il consumo, il rapporto con il resto della natura, la concezione della felicità e la visione che gli esseri umani hanno del mondo. Un progetto anti-produttivista per vivere meglio prendendosi cura degli esseri viventi sull’unico pianeta abitabile del sistema solare.
Le affermazioni ironiche che le condizioni storiche non sono mature per la rivoluzione mancano il punto. La decadenza della società borghese conduce l’umanità verso un abisso. Una rivoluzione ecosocialista, antirazzista, antimilitarista, anticolonialista ed ecofemminista, estremamente profonda – un vero cambio di civiltà – è oggettivamente necessaria ed urgente. Senza uno sconvolgimento rivoluzionario, e ciò nel prossimo periodo storico, l’intera civiltà umana è minacciata di essere spazzata via.
Il capitalismo ha già immerso l’umanità in una situazione così oscura, in particolare alla vigilia del primo conflitto mondiale. L’isteria nazionalista attanagliò le masse e la socialdemocrazia, tradendo il suo impegno a rispondere alla guerra con la rivoluzione, diede il via libera al massacro. Tuttavia, Lenin definì la situazione “oggettivamente rivoluzionaria”: solo la rivoluzione poteva fermare il massacro, disse. La storia gli diede ragione: la rivoluzione in Russia e la sua tendenza a diffondersi costrinsero le borghesie a porre fine al massacro. Il paragone ha ovviamente i suoi limiti. Una cosa è di sfidare eroicamente la morte, per non rischiare la propria vita uccidendo altri esseri umani a vantaggio dei mercanti di armi, della divisione imperialista del mondo e delle glorie dei generali. Un’altra cosa è sollevarsi contro il capitale perché, incorporando la forza lavoro che produce plusvalore, disumanizza i proletari al punto da renderli strumenti alienati della distruzione del resto della Natura, mettendo così in pericolo per le generazioni future il loro “corpo inorganico”. Le mediazioni verso l’azione rivoluzionaria qui sono infinitamente più complesse. Ma lo stesso risveglio della coscienza è necessario. Ora, di fronte alla crisi ecologica, una rivoluzione anticapitalista è ancora più oggettivamente necessaria. È questo il giudizio fondamentale che deve servire da base per l’elaborazione di un programma, una strategia e una tattica, perché non c’è un’altra via.
Tutto dipende dalle lotte e dalle loro avanguardie. Qualunque sia l’ampiezza del disastro, ad ogni tappa, sono le lotte che faranno la differenza. In queste lotte, molto dipende dalla capacità delle/i militanti ecosocialiste/i di organizzarsi per orientarsi nella pratica secondo la bussola della necessità storica oggettiva.
2. La follia del militarismo e dell’imperialismo su un pianeta in crisi
La guerra è la cosa più vicina che conosciamo allo sterminio genocida sulla Terra. La sua logica prolifera, i suoi effetti sono distruttivi come uno tsunami che inghiotte tutto ciò che incontra. Purtroppo, lo sappiamo fin troppo bene: la sua storia attraversa in gran parte quella dell’umanità. Non di chi aveva ragione, ma di chi è sopravvissuto allo scontro per raccontarla.
Soprattutto negli ultimi 200 anni, l’imperialismo occidentale ha organizzato invasioni, attacchi, colpi di stato, guerre, omicidi, in tutto il mondo, al fine di mantenere la sua egemonia.
Più di 30 paesi del mondo sono o sono stati recentemente implicati in guerre di dimensioni considerevoli, tra cui Sudan, Iraq, Yemen, Palestina, Siria, Congo e Myanmar. La crisi climatica stessa, i fenomeni meteorologici e i conseguenti intensi flussi migratori stanno alimentando molti altri conflitti in tutto il mondo, come in Ciad, in Siria e altrove. I governi rispondono accentuando l’autoritarismo statale, la militarizzazione e la criminalizzazione della migrazione. L’Europa e l’America del Nord non sono più solo continenti, ora sono anche fortezze.
L’aggressione imperialista russa contro l’Ucraina nel 2022 ha favorito tensioni geopolitiche su scala globale. Questa guerra di saccheggio è stata lanciata in nome della ricostituzione dell’impero zarista: a un intero popolo viene negato il diritto all’esistenza, all’autodeterminazione e alla dignità. Di conseguenza, la NATO, che era in crisi, è stata riattivata e rafforzata, espandendosi in nuovi paesi (Finlandia, Svezia) e mettendo l’Europa sempre più sotto l’egemonia imperialista degli Stati Uniti. La sicurezza a livello mondiale è stata ulteriormente minacciata. Il panico nucleare è tornato in primo piano e ci viene nuovamente ricordato come tutto il mondo possa scomparire in un lampo, in un batter d’occhio.
Questa guerra conferma l’ingresso in una nuova era di competizione interimperialista per l’egemonia globale, con gli Stati Uniti e i loro alleati da una parte, la Cina e i suoi alleati dall’altra. L’energia e le risorse minerarie sono al centro di questa competizione interimperialista. Prima della guerra in Ucraina, l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno promesso di accelerare la cosiddetta transizione energetica verso un sistema basato sulle energie rinnovabili. Ma la realtà del mercato ha rapidamente sgonfiato questa cosiddetta “ambizione”. I capitalisti continuano ad investire massicciamente in carbone, petrolio e gas, e i governi continuano a costruire pericolose centrali nucleari e a sovvenzionare le oligarchie dei combustibili fossili. I consensi sul clima sono arretrati, la guerra di classe è accentuata, e come ha detto Warren Buffet, sono ancora i ricchi che la stanno vincendo con queste battute d’arresto della civiltà e le minacce che portano.
È iniziata una nuova corsa agli armamenti. Mentre gli imperialismi litigano, vengono messe in discussione misure urgenti per la transizione climatica e un futuro sostenibile. Sappiamo che le guerre, oltre ad essere disastrose in termini di vite umane, attaccando i corpi delle donne, usando lo stupro come strumento di terrore e disumanizzando la vita collettiva, sono dannose per il pianeta su cui viviamo. Distruggono gli habitat, causano la deforestazione, avvelenano i suoli, le acque e l’aria e sono le principali fonti di emissioni di carbonio. Le guerre in Iraq, Afghanistan e Pakistan sono state disastrose per gli ecosistemi di questi paesi. Lo stesso vale per la guerra in Ucraina. I veicoli militari consumano combustibili a base di petrolio con grande intensità e i veicoli utilizzati nelle zone di guerra hanno prodotto molte centinaia di migliaia di tonnellate di monossido di carbonio, ossidi di azoto, idrocarburi e anidride solforosa, oltre alla CO2. L’inquinamento atmosferico provocato dai veicoli militari e dalle armi ha sempre avuto ripercussioni negative sulla salute pubblica dei civili nelle zone di guerra.
L’industria militare degli Stati Uniti, la più grande del mondo, è indicata come la più grande istituzione consumatrice di idrocarburi del pianeta. Tuttavia, tutti i rapporti sui costi planetari della guerra sono sempre insufficienti, data la mancanza di trasparenza di questi dati, che non sono nemmeno inclusi nel conteggio delle emissioni nazionali di carbonio.
Come ecosocialiste/i, ci rifiutiamo di scegliere tra le superpotenze che lottano per l’egemonia globale. Ci mobilitiamo contro le guerre imperialiste e sosteniamo i popoli che lottano per l’autodeterminazione e la pace.
Costruiamo un antimperialismo dal basso. Difendiamo un programma internazionalista di giustizia sociale, di transizione portato avanti da forze liberatrici e collettive, che lottano contro politiche oppressive.
- No alla NATO e alle altre alleanze militari;
- No all’aumento dei bilanci militari;
- Smantellamento di tutti gli armamenti nucleari, chimici e batteriologici;
- Smantellamento di tutte le compagnie militari private;
- Giù le mani dal diritto all’autodeterminazione dei popoli; fermare l’occupazione delle terre, la pulizia etnica…
3. Il mondo per cui combattiamo
Il nostro progetto per una società futura articola l’emancipazione sociale e politica con l’imperativo di fermare la distruzione della vita e di riparare il più possibile il danno già fatto.
Vogliamo (provare a) immaginare quale sarebbe una buona vita per tutte/i ovunque, riducendo il consumo di materia ed energia, e quindi riducendo la produzione materiale. Non si tratta di proporrere un modello preconfezionato, ma di osare pensare a un altro mondo, un mondo che ci spinga a lottare per costruirlo rompendo con il capitalismo e il produttivismo.
“Sì, è il pane per cui lottiamo, ma lottiamo anche per le rose”
Una buona vita per tutte/i richiede che i bisogni umani di base – cibo sano, salute, alloggio, aria pulita e acqua – siano soddisfatti.
Una vita buona è anche una vita scelta, appagante e creativa, impegnata in relazioni umane ricche e uguali, circondate dalla bellezza del mondo e dalle realizzazioni umane.
Il nostro pianeta dispone (ancora) di abbastanza terra coltivabile, acqua potabile, sole e vento, biodiversità e risorse di ogni tipo per soddisfare i legittimi bisogni umani rinunciando ai combustibili fossili e all’energia nucleare dannosi per il clima. Tuttavia, alcune di queste risorse sono limitate e quindi esauribili, mentre altre, sebbene inesauribili, richiedono materiali esauribili o addirittura rari e la cui estrazione è distruttiva. In ogni caso, poiché il loro uso non può essere illimitato, li usiamo con prudenza e parsimonia.
Essenziali per la nostra vita queste risorse sono escluse dall’appropriazione privata, considerate comuni perché ne deve beneficiare l’umanità nel suo insieme oggi e a lungo termine. Per garantire questo comune nel tempo, vengono elaborate regole collettive che definiscono gli usi ma anche i limiti di questi usi, gli obblighi di cura o di riparazione.
Poiché una mangrovia non è curata allo stesso modo di una calotta di ghiaccio, una zona umida allo stesso modo di una spiaggia sabbiosa, una foresta tropicale allo stesso modo di un fiume, perché l’energia solare non obbedisce alle stesse regole dell’energia eolica o idrica, come non impone gli stessi vincoli materiali, l’elaborazione di norme non può che essere il frutto di un processo democratico che coinvolga le/i prime/i interessate/i, le/i lavoratrici/ori e le/gli abitanti.
Il nostro comune sono anche tutti i servizi che ci permettono di rispondere in modo egualitario, e quindi gratuito, alle esigenze di istruzione, salute, cultura, accesso all’acqua, energia, comunicazione, trasporti, ecc. Essi sono gestiti e organizzati democraticamente dall’insieme della società.
I servizi che si occupano delle persone e della cura di cui hanno bisogno nelle diverse fasi della vita rompono la separazione tra pubblico e privato, l’assegnazione di questi compiti alle donne, socializzandoli cioè facendo in modo che questi siano di competenza di tutta la società. Questi servizi per la riproduzione sociale sono strumenti essenziali per combattere l’oppressione patriarcale.
L’insieme di questi “servizi pubblici” decentralizzati, partecipativi e basati sulla comunità costituisce la base di un’organizzazione sociale non autoritaria.
A livello della società nel suo insieme, la pianificazione ecologica democratica consente alle persone di riappropriarsi delle grandi scelte sociali relative alla produzione, di decidere, come cittadine/i e utenti, su cosa produrre e come produrla, sui servizi che devono essere forniti, ma anche sui limiti accettabili per l’uso di risorse materiali come acqua, energia, trasporti, terra, ecc. Queste scelte sono preparate e chiarite da processi di deliberazione collettiva che si basano sull’appropriazione della conoscenza, che sia scientifica o derivata dall’esperienza delle popolazioni, sull’auto-organizzazione delle/gli oppresse/i (movimenti di liberazione delle donne, popoli razzializzati, persone con disabilità, ecc.)
Questa democrazia economica e politica globale si articola con più collettivi/comitati decentralizzati: quelli che consentono di prendere decisioni a livello locale, nel comune o nel vicinato, sull’organizzazione della vita pubblica e quelli che permettono alle/i lavoratrici/ori e alle/i produttrici/tori di controllare la gestione e l’organizzazione della loro unità di lavoro, di decidere il modo di produrre e quindi di lavorare. È la combinazione di questi diversi livelli di democrazia che permette la cooperazione e non la concorrenza, una gestione che è effettivamente razionale dal punto di vista ecologico e sociale, che soddisfa da un punto di vista umano, a livello del reparto, dell’azienda, del settore… ma anche del comune, della regione, del paese e anche del pianeta!
Tutte le decisioni sulla produzione e sulla distribuzione, su come vogliamo vivere sono guidate dal principio: decentralizzare il più possibile, coordinare quanto necessario.
Prendere in mano la propria vita richiede tempo, energia e intelligenza collettiva. Fortunatamente, il lavoro di produzione e di riproduzione sociale richiede solo poche ore al giorno.
La produzione è dedicata esclusivamente alla soddisfazione dei bisogni determinati democraticamente. La produzione e la distribuzione sono organizzate in modo tale da ridurre al minimo il consumo di risorse ed eliminare sprechi, inquinamento ed emissioni di gas serra, puntando costantemente alla sobrietà e alla “sostenibilità programmata” (in contrasto con l’obsolescenza programmata del capitalismo, sia esso pianificato o semplicemente dovuto alla logica della corsa al profitto). Produrre il più vicino possibile ai bisogni da soddisfare consente una riduzione dei trasporti e una migliore comprensione del lavoro, dei materiali e dell’energia richiesti.
L’agricoltura è ecologica, contadina e locale per garantire la sovranità alimentare e la protezione della biodiversità. Le officine di lavorazione e i canali di distribuzione assicurano che la maggior parte degli alimenti sia prodotta a km 0.
Il settore energetico basato sulle fonti rinnovabili è il più decentralizzato possibile per ridurre le perdite e ottimizzare le fonti.
Le attività relative alla riproduzione sociale (sanità, istruzione, assistenza alle persone anziane o alle persone a carico, asili nido, ecc.) sono sviluppate e potenziate, facendo attenzione a non riprodurre stereotipi di genere.
Pur occupando meno tempo, il lavoro occupa un posto essenziale perché, insieme alla natura e prendendosi cura di essa, produce ciò che è necessario per la vita.
L’autogestione delle unità di produzione combinata con la pianificazione democratica consente alle/i lavoratrici/ori di controllare la loro attività, di decidere sull’organizzazione del lavoro e di mettere in discussione la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. La deliberazione si estende alla scelta delle tecnologie a seconda che permettano o meno al collettivo di lavoro di padroneggiare il processo di produzione. Privilegiando la conoscenza concreta, pratica e reale del processo lavorativo, il know-how collettivo e individuale e la creatività, consente di progettare e produrre oggetti resistenti che possono essere smontati e riparati, riutilizzati e/o riciclati e di ridurre il consumo di materiali e di energia, dalla fabbricazione all’uso.
In tutte le aree, la convinzione di fare qualcosa di utile e la soddisfazione di farlo bene sono combinate. Per quanto riguarda i compiti fastidiosi come la raccolta dei rifiuti, tutti si prendono cura di ridurre la loro pesantezza e difficoltà. Tuttavia, rimane una parte essenziale che viene eseguita da tutte/i a turno.
Gran parte della produzione di materiale, il cui volume è notevolmente ridotto, può essere deindustrializzato (tutto o parte dell’abbigliamento e dell’alimentazione)
Liberare il lavoro dall’alienazione ci permette di abolire il confine tra arte e vita in una sorta di ‘comunismo di lusso ‘. Possiamo tenere o condividere strumenti, mobili, una bicicletta, vestiti… tutta la nostra vita perché sono ingegnosamente progettati e belli.
Essere piuttosto che avere.
“Solo ciò che è bene per tutti è degno di te. Solo merita di essere prodotto ciò che non privilegia né umilia nessuno.” (A. Gorz).
La libertà non sta nel consumo illimitato, ma in una autolimitazione scelta, conquistata contro l’alienazione consumistica. La deliberazione collettiva permette di decostruire i bisogni artificiali, di definire i bisogni “universalizzabili”, cioè non riservati a certe persone o a certe parti del mondo, che devono essere soddisfatti.
La vera ricchezza non sta nell’aumento infinito dei beni – avere – ma nell’aumento del tempo libero – essere. Il tempo libero apre la possibilità di autorealizzazione nel gioco, nello studio, nell’attività civica, nella creazione artistica, nelle relazioni interpersonali e con il resto della natura.
Apriamo quindi la via a un sacco di lavori perché abbiamo tempo per pensarci e perché possiamo farlo mettendo al centro il rispetto delle persone e del resto della natura.
I luoghi in cui viviamo, ogni spazio in cui socializziamo, ci appartengono per costruire altre relazioni sociali interpersonali. Liberate/i dalla speculazione fondiaria e dall’automobile, possiamo ripensare l’uso degli spazi pubblici, colmare la separazione tra centro e periferia, moltiplicare gli spazi ricreativi, di incontro e di condivisione, de-artificializzare le città con l’agricoltura urbana e l’orticoltura comunitaria, il ripristino di biotopi incastonati nel tessuto urbano… E, oltre a ciò, attuare una politica a lungo termine volta a riequilibrare le popolazioni urbane e rurali e a superare l’opposizione tra città e campagna al fine di ricostituire comunità umane vive e sostenibili su una scala che consenta una vera democrazia.
I nostri desideri e le nostre emozioni non sono più cose da comprare e da vendere, la gamma di scelte è notevolmente allargata per tutte/i, ognuna/o può sviluppare nuovi modi di fare sesso, di vivere, lavorare e crescere i bambini insieme, di costruire progetti di vita in modo libero e diversificato, nel rispetto delle decisioni personali di ognuna/o, con l’idea che non esiste una sola opzione possibile, o una migliore delle altre. La famiglia può smettere di essere lo spazio per la riproduzione del dominio, e smettere di essere l’unica forma possibile di vita collettiva. Possiamo così ripensare la forma della genitorialità in modo più collettivo, politicizzare le nostre decisioni personali sulla maternità e la genitorialità, riflettere su come consideriamo l’infanzia e il ruolo delle persone anziane o disabili, le relazioni sociali che stabiliamo con loro, e come siamo in grado di rompere le logiche di dominio che abbiamo interiorizzato.
Costruiamo una nuova cultura, l’opposto della cultura dello stupro, una cultura che riconosce i corpi di tutte le donne cis e trans, e i loro desideri, che li riconosce come soggetti in grado di decidere sui loro corpi, le loro vite e le loro sessualità, che rende visibile che ci sono mille modi di essere una persona e di vivere ed esprimere il nostro genere e la nostra sessualità.
Un’attività sessuale liberamente consentita e piacevole per tutte/i coloro che vi prendono parte si giustifica da sola.
Riducendo radicalmente il nostro consumo di carne e di prodotti di origine animale, abbiamo posto fine al trattamento abietto degli animali nell’industria della carne e nella pesca industriale. Al di là di questo dobbiamo imparare a pensare all’interdipendenza degli esseri viventi e sviluppare una concezione del rapporto tra l’umanità e la natura che probabilmente assomiglierà in qualche modo a quella dei popoli indigeni, ma sarà comunque diverso. Una concezione in cui le nozioni etiche di precauzione, rispetto e responsabilità, oltre all’incanto davanti alla bellezza del mondo, interferiscono costantemente con una comprensione scientifica sempre più raffinata e sempre più chiaramente incompleta.
4. Il nostro metodo di transizione
La nostra analisi del capitalismo e in particolare delle politiche della classe dominante in relazione ai pericoli ecologici e al cambiamento climatico, ci porta alla conclusione seguente:
In primo luogo, la necessità di un’alternativa globale e di un progetto di società basato sulla produzione di valori d’uso. Girando questa o quella vite nell’ingranaggio del sistema e senza cambiare il modo di produzione non saremo in grado di scongiurare o neanche di mitigare significativamente le crisi attuali e le catastrofi che stiamo affrontando. Uno dei compiti importanti della politica rivoluzionaria è quello di trasmettere questa idea.
Comprendere la necessità di un cambiamento rivoluzionario globale è un compito che non può essere risolto direttamente e senza difficoltà nella pratica. Ecco perché, in secondo luogo, è importante combinare la presentazione del contesto globale con la propagazione di richieste immediate per le quali le mobilitazioni possono effettivamente essere sviluppate o promosse.
In terzo luogo, va sottolineato: convincere le persone non può essere fatto dalle sole argomentazioni. Per convincere la gente a voltare le spalle al modo di produzione capitalista e incoraggiarla a resistere, sono necessarie lotte riuscite che diano coraggio e dimostrino che sono possibili vittorie parziali.
E in quarto luogo, perché le lotte siano vincenti, ci vuole una migliore organizzazione. Questo è sempre vero in linea di principio, ma oggi – in tempi in cui i sindacati sono (in molte parti del mondo) in gran parte scomparsi politicamente e la sinistra è frammentata – è importante promuovere la cooperazione pratica in modo non settario, in particolare in seno alla sinistra anticapitalista e allo stesso tempo sostenere le/i lavoratrici/ori nella loro auto-organizzazione.
Da un lato, il tempo stringe se non vogliamo che i punti critici siano oltrepassati e che il riscaldamento globale acceleri oltre ogni controllo. D’altra parte, la stragrande maggioranza delle persone non sono pronte a riprendere la lotta per un sistema diverso, ossia per rovesciare il capitalismo. Ciò è in parte dovuto alla mancanza di conoscenza della situazione generale, ma ancor più alla mancanza di prospettiva su come potrebbe o dovrebbe essere l’alternativa. Inoltre, il rapporto di forze sociale e politico tra le classi non incoraggia esattamente lo scontro con i governanti e i profittatori dell’ordine sociale capitalista. Così, un cosiddetto “programma massimo”, che vuole porre la questione del potere attraverso uno scontro immediato, ha ancora meno possibilità di successo di quanto non avesse già in passato.
D’altra parte, un programma di riforme che vuole riformare il capitalismo o superarlo poco a poco (e per di più con una politica dall’alto) non ha alcuna possibilità di successo. Le riforme che accettano le regole del sistema capitalista non sono in grado di affrontare le sfide della crisi ecologica. E i cambiamenti graduali nell’economia e dello Stato non hanno mai portato a un cambiamento di sistema. I proprietari e i profittatori del capitalismo non staranno a guardare pacificamente mentre la loro ricchezza viene confiscata e il loro modo di arricchimento viene tolto pezzo per pezzo.
Il tempo è breve e occorrono misure urgenti. Alcuni oppositori dell’ecosocialismo sostengono riforme lievi “perché non possiamo aspettare la rivoluzione mondiale”. Le/i partigiane/i dell’ecosocialismo non hanno intenzione di aspettare! La nostra strategia è quella di iniziare ORA, con concrete richieste transitorie. È l’inizio di un processo di cambiamento globale. Non si tratta di stadi storici separati, ma momenti dialettici nello stesso processo. Ogni vittoria parziale o locale è un passo in questo movimento, che rafforza l’auto-organizzazione e incoraggia la lotta per nuove vittorie.
Nelle lotte di classe a venire – che sono la precondizione per poter spiegare e argomentare le nostre idee in strati più ampi della classe operaia, dei giovani, degli indigeni ecc. – deve essere chiaro che in fin dei conti non c’è modo di aggirare un reale cambiamento di sistema e la questione del potere. La classe dominante deve essere espropriata e il suo potere politico rovesciato.
Per un programma di transizione anticapitalista
Il metodo di transizione era già stato suggerito da Marx ed Engels nell’ultima sezione del Manifesto comunista (1848). Ma è la Quarta Internazionale che gli ha dato il suo significato moderno, nel Programma di Transizione del 1938. Il suo presupposto fondamentale è la necessità, per le/i rivoluzionari, di aiutare le masse nel processo della lotta quotidiana per trovare il ponte tra le rivendicazioni attuali e il programma socialista della rivoluzione. Questo ponte dovrebbe includere un sistema di rivendicazioni transitorie, derivanti dalle condizioni attuali e dalla coscienza di oggi di ampi strati della classe operaia; l’obiettivo è quello di condurre le lotte sociali verso la conquista del potere da parte del proletariato.
Naturalmente, le/i rivoluzionari non scartano il programma delle vecchie richieste “minime” tradizionali: ovviamente difendono i diritti democratici e le conquiste sociali delle/i lavoratrici/ori. Tuttavia, esse/i propongono un sistema di rivendicazioni transitorie, che possono essere opportunamente comprese dalle/gli sfruttate/i e dalle/gli oppresse/i, ma allo stesso tempo sono dirette contro le basi stesse del regime borghese.
La maggior parte delle richieste transitorie menzionate nel programma del 1938 sono ancora oggi rilevanti: scala mobile dei salari e scala mobile degli orari di lavoro; controllo operaio nelle fabbriche, apertura dei conti aziendali “segreti”; espropriazione delle banche private; espropriazione di settori capitalistici, … L’interesse di tali proposte è quello di unire nella lotta le più larghe masse popolari possibili, intorno a rivendicazioni concrete che sono in contraddizione oggettiva con le regole del sistema capitalista.
Dobbiamo però aggiornare il nostro programma di richieste transitorie, per tenere conto delle nuove condizioni del XXI secolo, e in particolare della nuova situazione creata dalla crisi ecologica e del pericolo imminente di un cambiamento climatico catastrofico. Oggi queste rivendicazioni devono avere una natura socio-ecologica e, potenzialmente, ecosocialista.
L’obiettivo delle rivendicazioni transitorie ecosocialiste è strategico: essere in grado di mobilitare ampi settori di lavoratori urbani e rurali, donne, giovani, vittime del razzismo o dell’oppressione nazionale, nonché sindacati, movimenti sociali e partiti di sinistra in una lotta che sfida il sistema capitalista e il dominio borghese. Queste rivendicazioni, che uniscono interessi sociali ed ecologici, devono essere considerate necessarie, legittime e pertinenti dalle/gli sfruttate/i e dalle/gli oppresse/i, secondo il loro livello di coscienza sociale e politica. Nella lotta, le persone diventano consapevoli della necessità di organizzarsi, di unirsi e di combattere; cominciano anche a capire chi è il nemico: non solo le forze locali, ma il sistema stesso. Lo scopo delle richieste eco-sociali di transizione è quello di migliorare, grazie alla lotta, la coscienza di classe delle/gli oppressi, la loro comprensione anticapitalista, e, si spera, una prospettiva rivoluzionaria ecosocialista.
Alcune di queste richieste hanno un carattere universale: ad esempio, il trasporto pubblico gratuito. È una rivendicazione sia ecologica che sociale, e contiene semi del futuro ecosocialista: servizi pubblici vs mercato, e gratuità vs profitto capitalista. Tuttavia, il loro significato strategico non è lo stesso secondo le società e le economie. Le rivendicazioni transitorie ecosocialiste devono tener conto dei bisogni e delle aspirazioni delle masse nelle diverse parti del sistema capitalista mondiale.
5. Le grandi linee direttrici di un programma mondiale di decrescita giusta, ecosocialista
Soddisfare i reali bisogni sociali rispettando i vincoli ecologici è possibile solo rompendo con la logica produttivista e consumistica del capitalismo, che approfondisce le disuguaglianze, oggettiva il vivente e “rovina le uniche due fonti di tutta la ricchezza – la Terra e i lavoratori” (Marx). A livello mondiale, rompere questa logica implica la lotta prioritaria per le seguenti linee di forza. Esse costituiscono un insieme coerente, da completare e da declinare in funzione delle specificità nazionali e regionali. A questo proposito, emergono due casi estremi: i cosiddetti paesi “sviluppati” e i cosiddetti paesi “meno avanzati”. I primi sono di gran lunga i principali responsabili della rottura degli equilibri ecologici e hanno in particolare esaurito in larga misura il loro bilancio in materia di carbonio; la diminuzione del loro consumo energetico è quindi un imperativo immediato, inseparabile dal loro obbligo di riparazione e di solidarietà nei confronti dei secondi.
Questi, da parte loro, non possono fare a meno di consumare una certa quantità di energia fossile e di altre risorse per soddisfare l’enorme massa di bisogni sociali elementari di cui le loro classi popolari sono pesantemente private. Allo stesso tempo, devono inventare un modo di sviluppo alternativo al modo fossile che è stato seguito storicamente dai primi. Non farlo esporrebbe certamente i paesi poveri ad un aggravamento della catastrofe che già li colpisce più duramente. Il programma ecosocialista risponde a questa situazione avanzando da un lato richieste anticapitaliste globali (che disegnano il quadro della necessaria riduzione della produzione e dei consumi a livello planetario), e dall’altro rivendicazioni anticapitalistiche specifiche, rispettivamente per i paesi cosiddetti “sviluppati” e per i paesi poveri o a reddito medio.
5.1. Distribuire le ricchezze per prendersi cura degli esseri umani e del nostro ambiente di vita, gratuitamente
Assistenza sanitaria di qualità, buona istruzione, buona cura per i bambini, un pensione dignitosa e un’assistenza rispettosa delle scelte delle persone che ne necessitano, alloggi accessibili, permanenti e confortevoli, trasporti pubblici efficienti, energia rinnovabile, cibo sano, acqua pulita, l’accesso a internet e un ambiente naturale in buone condizioni: queste sono i reali bisogni che una civiltà degna del suo nome dovrebbe tranquillamente soddisfare per tutti gli esseri umani, indipendentemente dal colore della pelle, dal genere, dall’etnia, dalle convinzioni. Questo è possibile, senza aumentare significativamente la pressione sul nostro ambiente. Perché non ce l’abbiamo? Perché l’economia è sintonizzata sui bisogni deliranti dei capitalisti. Consumano e investono sempre di più per il profitto, si appropriano di tutte le risorse e trasformano tutto in merci. La loro logica egoista semina l’infelicità e la morte. È necessaria una svolta di 180 gradi. Le risorse naturali e le conoscenze costituiscono un bene comune da gestire con accortezza e collettivamente. La soddisfazione dei bisogni reali e il ripristino degli ecosistemi devono essere pianificati democraticamente e sostenuti dal settore pubblico, sotto il controllo attivo delle popolazioni, ed estendendone il più possibile il libero accesso. La ricerca scientifica deve essere posta al servizio di questo progetto collettivo. Il primo passo necessario è quindi combattere le disuguaglianze e l’oppressione, rifinanziare il settore pubblico prendendo il denaro dove c’è: tassazione progressiva, un tetto ai redditi alti, abolizione del segreto bancario, tassazione patrimoniale, delle plusvalenze e delle transazioni finanziarie, abolizione dei debiti pubblici, abolizione dei paradisi fiscali, lotta alla corruzione…
5.2. Sviluppare i beni comuni e i servizi pubblici contro la privatizzazione e la mercificazione
Questo è uno degli aspetti chiave della lotta per una transizione sociale ed ecologica, in molti settori della vita. Per esempio:
- Salute: il bilancio della pandemia COVID-19 è chiarissimo: privatizzazioni e tagli nel settore della cura indeboliscono le classi popolari – in particolare i bambini, le donne e le/gli anziane/i – e pesanti incognite gravano sulla salute pubblica in generale. Questo settore deve essere rifinanziato in modo massiccio e messo integralmente nelle mani della collettività. Gli investimenti devono avere la priorità sulla medicina di base. L’industria farmaceutica deve essere socializzata.
- Trasporti: Il trasporto individuale nel capitalismo privilegia le auto private, con conseguenze sanitarie ed ecologiche disastrose. L’alternativa è un ampio ed efficiente sistema di trasporto pubblico gratuito, nonché una grande estensione di aree pedonali e ciclabili. Le merci sono trasportate a grandi distanze da camion o navi portacontainer, con enormi emissioni di gas; la rilocalizzazione della produzione e il trasporto di merci con il treno sono misure immediate necessarie. Il trasporto aereo dovrebbe essere significativamente ridotto e soppresso per distanze che possono essere coperte dal treno. Jet privati ed elicotteri dovrebbero essere confiscati.
- Alloggio: Il diritto fondamentale di tutte le persone a un alloggio dignitoso, permanente ed ecologicamente sostenibile non può essere garantito sotto il capitalismo. La legge del profitto comporta sfratti, demolizioni e criminalizzazione di coloro che resistono. Comporta anche spese energetiche elevate per i poveri e le rinnovabili sovvenzionate per i ricchi. Controllo pubblico sul mercato immobiliare, abbassamento e congelamento degli interessi e dei profitti delle banche, un radicale aumento delle abitazioni buone, pubbliche, sociali e cooperative, un piano pubblico di isolamento climatico delle case e un massiccio programma di costruzione di case energeticamente autonome, sono i primi passi di una politica alternativa. Ma c’è bisogno di ripensare l’intero sistema urbano, secondo criteri sociali ed ecologici, al di là delle attuali città insostenibili, circondate da baraccopoli miserabili.
- Acqua: l’attuale privatizzazione, lo spreco dei consumi e l’inquinamento delle acque – fiumi, laghi e sotterranei – è un disastro sociale ed ecologico. La scarsità d’acqua e le inondazioni dovute al cambiamento climatico rappresentano una grave minaccia per miliardi di persone. L’acqua è un bene comune e dovrebbe essere gestita e distribuita dai servizi pubblici, sotto il controllo delle/i consumatrici/ori.
5.3. Eliminare le attività economiche inutili o dannose
Fermare la catastrofe climatica e il declino della biodiversità richiede assolutamente una riduzione molto rapida e significativa del consumo energetico finale a livello mondale. Questo limite è inaggirabile. I primi passi consistono nel ridurre drasticamente il potere d’acquisto dei ricchi, abbandonare la moda effimera, la pubblicità e la produzione/consumo di lusso (crociere, yacht e jet privati o elicotteri, turismo spaziale, ecc.), ridurre la produzione di massa di carne e di latticini e porre fine all’obsolescenza accelerata dei prodotti, prolungandone la durata e facilitandone la riparazione. Il trasporto aereo e marittimo di merci dovrebbe essere ridotto drasticamente dalla ri-localizzazione della produzione e sostituito dal trasporto ferroviario ogniqualvolta sia possibile. I viaggi aerei dovrebbero essere limitati e ridotti in modo egualitario. Più strutturalmente, il vincolo energetico può essere rispettato solo riducendo rapidamente le attività economiche inutili o dannose. I principali settori produttivi da considerare sono: la produzione di armi, l’energia fossile e petrolchimica, l’industria estrattiva, l’industria manifatturiera non sostenibile, l’industria del legno e della cellulosa, la costruzione di auto personali, di aerei e navale. Sono necessari piani di transizione concreti per rispettare il vincolo ecologico e soddisfare i bisogni sociali (compresa la necessità di difendere alternative ecosocialiste contro la reazione imperialista).
5.4. Uscire dall’industria agroalimentare, dalla pesca industriale e dall’industria della carne
Questi tre settori rappresentano gravi minacce per il clima, la salute umana e la biodiversità. Il loro smantellamento richiede misure a livello della produzione, ma anche cambiamenti significativi a livello del consumo (nei paesi sviluppati e tra i ricchi di tutti i paesi) e del rapporto con il vivente. Sono necessarie politiche proattive per fermare la deforestazione e sostituire l’agroindustra, le piantagioni industriali e la pesca su larga scala con l’agroecologia contadina, l’eco-silvicoltura e la pesca su piccola scala rispettivamente. Queste alternative consumano meno energia, impiegano più manodopera e sono molto più rispettose della biodiversità. Agricoltrici/ori e pescatrici/ori devono essere adeguatamente compensati dalla comunità, non solo per il loro contributo all’alimentazione umana, ma anche per il loro contributo ecologico. I diritti dei popoli originali sulla foresta e su altri ecosistemi devono essere protetti. Il consumo globale di carne deve essere ridotto drasticamente. L’industria della carne e del latte deve essere smantellata e la promozione deve essere fatta di una dieta basata principalmente sulla produzione vegetale locale.
5.5. Per uscire al più presto dai combustibili fossili e dall’energia nucleare, socializzare l’energia e la finanza senza indennizzi o riscatto
Le multinazionali dell’energia e le banche che le finanziano vogliono sfruttare fino all’ultima tonnellata di carbone, fino all’ultimo litro di petrolio, fino all’ultimo metro cubo di gas. Inizialmente hanno nascosto e negato l’impatto della CO2 sul cambiamento climatico. Ora, al fine di continuare a sfruttare le loro risorse, nonostante tutto, e mentre l’impennata dei prezzi garantisce loro surplus gigantesco di profitti, promettono tutti i tipi di tecniche fasulle (greenwashing, scambio di “diritti inquinanti”, “compensazione delle emissioni”, “cattura, sequestro e utilizzo del carbonio”) e promuovono l’energia nucleare essendo “a basse emissioni di CO2”. Nessun dubbio è possibile: questi gruppi affamati di profitto stanno portando il pianeta dalla catastrofe climatica al cataclisma. Allo stesso tempo, sono in prima linea negli attacchi capitalisti contro le classi lavoratrici. Devono essere socializzati con l’espropriazione, senza indennizzo o riscatto. Per fermare la distruzione sociale ed ecologica, per determinare il nostro futuro collettivamente, nulla è più urgente che istituire servizi pubblici di energia e di credito, decentralizzati e interconnessi, sotto il controllo democratico delle popolazioni.
5.6. Garantire l’occupazione per tutte/i, assicurare le riqualificazioni necessarie in attività ecologicamente sostenibili e socialmente utili
Le/i lavoratrici/ori impegnate/i in attività di combustibili fossili dispendiose e dannose, nel settore agroindustriale, nella grande pesca e nell’industria della carne non devono pagare il prezzo della cattiva gestione capitalista. Una garanzia di lavoro verde deve essere istituita per garantire la loro riqualificazione collettiva, senza perdita di reddito, nelle attività del piano pubblico per soddisfare i bisogni reali e ripristinare gli ecosistemi. Questa garanzia di posti di lavoro verdi supererà i legittimi timori dei lavoratori interessati. Così, si porrà fine alla strumentalizzazione cinica di queste paure da parte dei capitalisti, al servizio dei loro interessi produttivisti/consumisti. Al contrario, la garanzia di posti di lavoro verdi incoraggerà e motiverà le/i lavoratrici/ori dei settori condannati, a formarsi e a mobilitarsi per assumere attivamente la responsabilità della realizzazione del piano, in dialogo con il pubblico beneficiario, investendo le loro conoscenze, le loro capacità e la loro esperienza in un’attività ricca di significato, emancipatrice, veramente umana perché interessata alla vita delle generazioni future.
5.7. Lavorare meno, vivere e lavorare meglio, vivere una buona vita
Ridurre radicalmente il consumo finale di energia eliminando la produzione/consumo inutile e dannosa ha l’effetto di ridurre radicalmente il tempo di lavoro sociale salariato. Questa riduzione deve essere collettiva. Lo spreco capitalista è di tale portata che la sua soppressione aprirà senza dubbio la possibilità concreta di una riduzione molto significativa dell’orario di lavoro settimanale (verso il lavoro di mezza giornata) e di una significativa riduzione dell’età di pensionamento. Questa tendenza alla riduzione sarà in parte attenuata dalla necessaria riduzione dei ritmi di lavoro e dal l’aumento del lavoro di riproduzione sociale ed ecologica necessario per prendersi cura delle persone (anche socializzando parte del lavoro domestico svolto gratuitamente e in maggioranza da donne) e degli ecosistemi. La pianificazione democratica sarà essenziale per articolare nel tempo questi movimenti in varie direzioni. Ciò che è certo, in ogni caso, è che il programma di decrescita ecosocialista implica una doppia trasformazione del lavoro. Quantitativamente, lavoreremo molto meno. Qualitativamente, creerà le condizioni per rendere il lavoro un’attività della buona vita – una mediazione consapevole tra gli esseri umani (quindi anche tra uomini e donne), e tra gli esseri umani e il resto della natura.
5.8. Garantire l diritti delle donne sul proprio corpo
L’umanità non potrà gestire consapevolmente la sua relazione con il resto della natura senza gestire consapevolmente la sua relazione con se stessa, cioè la propria riproduzione biologica, che passa attraverso il corpo della donna. Non è un caso che gli attacchi patriarcali ai diritti delle donne si intensifichino ovunque: questi attacchi sono parte integrante di progetti politici che cercano di stabilire poteri forti al servizio dei ricchi e dei capitalisti. Sono spesso realizzati in nome di un’ideologia reazionaria “pro-vita”, che nega tra l’altro il cambiamento climatico antropogenico. Ma, accanto a queste forze oscure, ci sono anche correnti tecnocratiche che attribuiscono la colpa della crisi ecologica alla “sovrappopolazione” e quindi tentano di imporre politiche autoritarie di controllo delle nascite. Di fronte a questi due tipi di minacce, sosteniamo che nessuna moralità, nessuna ragione superiore, anche ecologica, può essere invocata per negare alle donne il loro diritto elementare di controllare la propria fertilità. La negazione di questo diritto è consustanziale con tutti gli altri meccanismi di dominio, compreso il “dominio umano” sul resto della natura, a beneficio del patriarcato e della sua attuale forma capitalista. L’emancipazione umana presuppone l’emancipazione delle donne. Ciò implica in via prioritaria che le donne devono avere libero accesso alla contraccezione, all’aborto e all’assistenza riproduttiva in generale.
5.9. Internazionalismo: contro imperialismi e nazionalismi, imporre la giustizia climatica
Il misero bilancio sul carbonio ancora disponibile deve essere ripartito secondo responsabilità e capacità storiche. Le risorse minerarie e la ricchezza della biodiversità devono essere utilizzate con cura, secondo i reali bisogni di tutte/i. Non ci sarà una soluzione nazionale, queste sfide richiedono una risposta coerente antimperialista e internazionalista. I debiti dei paesi poveri e a medio reddito devono essere aboliti. I beni dei dittatori devono essere sequestrati e restituiti al popolo. I finanziamenti impegnati nei negoziati sul clima (Fondo verde, Fondo di adattamento, Fondo per le perdite e i danni) devono essere onorati. Dobbiamo porre fine alle disparità di scambio e alla costruzione di muri. La libertà di movimento e di insediamento deve essere garantita alle/i migranti. L’abolizione dei brevetti deve consentire ai popoli del Sud di accedere liberamente a tecnologie in grado di soddisfare bisogni reali senza utilizzare ancora più energia fossile. Queste sono condizioni essenziali per fermare la catastrofe climatica ed evitare di sprofondare nella barbarie.
5.10. Promuovere una rivoluzione culturale basata su un attento rispetto per il vivente e per “l’amore per la Madre Terra”
Una rottura radicale con l’ideologia del dominio umano sulla natura è essenziale per lo sviluppo di una cultura ecologica e femminista – ecofemminista – di “cura” per le persone e l’ambiente. La difesa della biodiversità, in particolare, non può basarsi unicamente sulla ragione (l’interesse umano propriamente inteso): richiede altrettanta empatia, rispetto, prudenza e quel tipo di concezione globale che i primi popoli riassumono con la frase “amore per la Madre Terra”. Mantenere questa concezione globale o riacquisirla – attraverso le lotte, la creazione artistica, l’educazione e le alternative di produzione/consumo, in particolare – è una grande sfida ideologica nella lotta ecosocialista. La modernità occidentale ha sistematizzato l’idea che gli esseri umani siano creature divine la cui missione è dominare la natura e strumentalizzare gli altri animali, ridotti al rango di macchine. Già contestata da Darwin, che ha sottolineato la filiazione dell’Homo sapiens, questa concezione non-materialista, intimamente legata alle dominazioni coloniali e patriarcali, è oggi completamente squalificata dalla conoscenza scientifica. Molte caratteristiche umane esistono potenzialmente o in forma embrionale in altri animali. Gli scienziati oggi credono che le eccezionali abilità dell’Homo sapiens siano il prodotto di un numero piuttosto limitato di “salti” nell’evoluzione. Siamo parte della Terra viva, siamo animali anche noi e senza questa rete di vita su questo pianeta, senza le piante, senza gli altri animali, la vita umana sarebbe impossibile.
Questo programma ha una rilevanza generale, ma bisogna aggiungere che i paesi industrializzati del “Nord” – Nord America, Europa, Australia, Giappone – devono compiere i maggiori sforzi in termini di una rapida decrescita in produzioni inutili e/o dannose. Hanno anche delle responsabilità di aiutare i paesi meno sviluppati del “Sud” a trovare tecnologie alternative, oltre a fornire finanziamenti per una transizione ecologica.
I capitalisti dei paesi imperialisti sono responsabili della crisi ecologica e devono pagare per le conseguenze. La grande massa dei lavoratori, delle donne, dei giovani, delle minoranze etniche, nel “Nord” sono anche vittime del cambiamento climatico. Devono prendere nelle loro mani il processo di transizione sociale ed ecologica e imporlo con una lotta comune contro l’élite dominante.
Naturalmente, in ogni continente, e in ogni paese, vi sono misure specifiche da proporre in una prospettiva transitoria.
6. Il programma ecosocialista nei paesi dominati
Dopo secoli di schiavitù e saccheggi coloniali, le popolazioni dei cosiddetti paesi “in via di sviluppo” sono vittime di una nuova mostruosa ingiustizia. Mentre la responsabilità dei paesi meno sviluppati per le emissioni di gas serra è marginale, quasi nulla nei paesi più poveri, la deregulation climatica causata da duecento anni di crescita capitalista imperialista li pone in prima linea per le catastrofi che li stanno colpendo sempre più duramente.
L’Africa, l’America Latina, il Sud e il Sud-Est asiatico e il Pacifico ospitano la stragrande maggioranza dei 3,5 miliardi di donne, uomini e bambini le cui condizioni di vita, persino l’esistenza stessa, sono già crudelmente colpite dalle conseguenze del riscaldamento globale. L’urgenza è qui e cresce molto rapidamente. Più le temperature aumentano, meno le società possono adattarsi agli effetti del riscaldamento globale. In particolar modo nei paesi più poveri siccità, inondazioni, tifoni, ondate mortali di calore e danni agli ecosistemi minacciano sempre più la sopravvivenza di milioni di esseri umani, la loro capacità di lavorare e i loro diritti fondamentali a breve e medio termine.
6.1. Piani pubblici per proteggere le classi popolari dagli effetti del cambiamento climatico
Nei paesi periferici del capitalismo mondiale, è di enorme importanza che l’agenda di transizione ecosocialista avanzi immediatamente piani pubblici volti a proteggere le classi popolari contro gli effetti ormai inevitabili del cambiamento climatico. Questi piani non sostituiscono una politica di sviluppo alternativa e anticapitalista volta a eliminare gradualmente i combustibili fossili il più rapidamente possibile. La verità è che le due dimensioni sono interconnesse perché, al di là di un certo livello di riscaldamento, l’adattamento non è più possibile. Questi piani pubblici devono abbracciare tutti i settori, in particolare l’agricoltura, la silvicoltura, l’edilizia abitativa, la gestione delle risorse idriche, la produzione di energia, l’industria, la legislazione del lavoro, la sanità e l’istruzione. Naturalmente, tali piani pubblici sono necessari anche nei paesi “sviluppati”, ma l’entità delle minacce che pesano sui paesi del Sud rende questa questione un problema cruciale in questi paesi. La sua importanza aumenta inversamente con il livello di sviluppo.
C’è “adattamento” e adattamento. Per l’imperialismo e i suoi complici locali, “adattamento” è una deviazione dalla lotta contro le cause. In particolare nel Sud del mondo, il loro “adattamento” mira a dare nuovi mercati alle multinazionali (infrastrutture, trasporti, compensazione del carbonio, ecc.). Esso mira anche a mantenere le condizioni favorevoli alla dominazione imperiale al fine di prolungare e addirittura aumentare il saccheggio neocoloniale (con il pretesto di “sviluppo verde”) … senza pagare il loro “debito ecologico”. Questo “adattamento” capitalista è in realtà un “disadattamento” (nella terminologia IPCC). Può solo aggravare le catastrofi per la massa della popolazione e per gli ecosistemi.
6.2. La necessità di un modello di sviluppo alternativo
L’urgenza di una politica di adattamento degna di questo nome e la portata del compito da svolgere per riparare i danni e proteggere le popolazioni mette in luce l’impasse dell’attuale “modello di sviluppo” e la necessità di un’alternativa sistemica.
I governi imperialisti, le istituzioni internazionali e gli stessi governi del Sud del Mondo affermano che la crescita capitalista permetterà alle persone del Sud di “raggiungere” il livello di vita dei paesi capitalisti sviluppati. Basta un “buon governo” per “adattare” le società alle esigenze del mercato globale. Questo è un vicolo cieco, come dimostrato dal fatto che gli Obiettivi di sviluppo sostenibile – largamente insufficienti e non equivalenti ad un “recupero”! – sono lungi dall’essere realizzati. Le disuguaglianze continuano a crescere (anche tra ricchi e poveri all’interno delle società del Sud), mentre il “bilancio del carbonio” compatibile con l’1.5°C sta scomparendo rapidamente.
Maggioritarie sul pianeta, le popolazioni dei paesi della periferia hanno il diritto fondamentale di accedere a condizioni di vita dignitose. I loro bisogni sociali sono più che legittimi. Per soddisfarli, hanno bisogno di un modello di sviluppo radicalmente opposto al modello imperialista e produttivista. Un modello che dà priorità ai servizi pubblici (sanità, istruzione, edilizia, trasporti, fognature, elettricità, acqua potabile) per la massa della popolazione, e non alla produzione di beni per il mercato mondiale. Un modello anticapitalista e antimperialista, che nazionalizza i monopoli nei settori della finanza, minerario, energetico, agroalimentare.
Fondato sulla soddisfazione dei bisogni dei popoli del Sud, nel rispetto degli equilibri ecologici, questo modello di sviluppo alternativo non è in alcun modo antagonista alla necessità di una decrescita ecosocialista globale: al contrario, ne fa pienamente parte. D’altronde, una delle sue sfide principali è la lotta contro i megaprogetti ecocidi ispirati dalle politiche capitaliste neoliberiste, come gasdotti giganti, nuovi aeroporti, pozzi petroliferi offshore, grandi dighe idroelettriche ed enormi infrastrutture turistiche che si appropriano delle spiagge a beneficio dei ricchi.
Questo modello di sviluppo alternativo non può servire da pretesto per politiche che limitano il diritto di movimento e di insediamento, in particolare politiche imperialiste che pagano quindi i regimi del Sud per svolgere il ruolo di polizia delle frontiere.
6.3. Le multinazionali, gli Stati imperialisti e le “élite” locali devono pagare il conto
Una strategia di transizione degna di questo nome deve essere una strategia pubblica e pianificata democraticamente elaborata a breve, medio e lungo termine secondo gli equilibri ecologici e le esigenze sociali come le classi popolari stesse le formulano. Il conto per l’attuazione deve essere pagato dai responsabili del disastro: le multinazionali, gli Stati imperialisti e le cosiddette “élite” locali corrotte che servono come loro complici.
Queste cosiddette “élite” hanno una grande responsabilità. Invece di promuovere uno sviluppo alternativo, basato su valori sociali alternativi, sono messe a servizio dell’imperialismo. A parole, chiedono “giustizia climatica” nei negoziati internazionali. In pratica, aspirano solo a copiare lo stile di vita dei super-ricchi del Nord, con i loro yacht, jet privati, auto di lusso, ecc
La “giustizia climatica” implica non solo il versamento di somme sufficienti ai vari fondi creati durante i negoziati internazionali (Fondo verde per il clima, fondo di adattamento, fondo per le perdite e i danni), ma anche l’abolizione del debito estero, l’abolizione del debito pubblico detenuto dall’oligarchia finanziaria (senza indennizzo, tranne per i piccoli proprietari) e la compensazione da parte del Nord per i paesi del Sud che rinunciano a sfruttare le loro risorse fossili (progetto Yasuni Park).
6.4. Auto-organizzazione delle lotte popolari e lotta per la democratizzazione
Nei paesi periferici, in particolare i più poveri, è di decisiva importanza per l’alternativa ecosocialista collegare strettamente la lotta per una politica rispettosa delle risorse naturali alle lotte per la soddisfazione dei bisogni sociali e per i diritti democratici delle popolazioni, in una dinamica antimperialista e anticapitalista. Si tratta dell’auto-organizzazione delle lotte popolari, in particolare quella delle/i contadine/i e dei “senza terra” contro l’agrobusiness, quella dei popoli indigeni contro le miniere e la silvicoltura, quella delle donne contro la violenza sessista e la discriminazione, quella delle/gli abitanti delle baraccopoli per il diritto alla casa e delle/i lavoratrici/ori contro lo sfruttamento padronale.
La democratizzazione è al centro di questa strategia: rovesciamento di dittature, regimi militari, regimi religiosi e monarchie. Istituzione del referendum di iniziativa popolare. Lotta contro la corruzione. Abolizione delle istituzioni antidemocratiche (Senato, Banca centrale autonoma). Scioglimento delle milizie paramilitari al servizio dei governanti. Rispetto dei diritti e dei territori delle comunità indigene e di altri popoli oppressi. Sindacati indipendenti e libertà di associazione.
6.5. Controllo pubblico e protezione delle risorse naturali. Zero deforestazione. Rispettare le popolazioni indigene
Il programma ecosocialista per i paesi dominati richiede la protezione e il controllo pubblico delle risorse naturali sotto il controllo delle classi popolari. Municipalizzazione della proprietà e gestione dell’acqua, sotto il controllo delle/gli abitanti, al fine di garantire acqua potabile pulita per tutte/i. Zero deforestazione. No alla distruzione dei biomi da parte degli allevamenti di bovini, delle piantagioni di olio di palma, dell’agrobusiness in generale e dell’industria mineraria; no all’appropriazione neocoloniale di “pozzi di carbonio” per compensare le emissioni dal Nord (progetti REDD e REDD-+). Protezione delle foreste tropicali dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina e delle comunità indigene che le abitano. Demarcazione dei loro territori. No agli “accordi di pesca” che offrono risorse ittiche alle multinazionali della pesca industriale.
6.6. No all’agrobusiness. Sovranità alimentare e riforma agraria
La sovranità alimentare, in linea con le proposte della Via Campesina, la grande rete planetaria dei movimenti contadini, è un obiettivo chiave. Passa attraverso una radicale riforma agraria: la terra a chi la lavora, soprattutto alle donne. Espropriazione dei grandi proprietari terrieri e dell’agroindustria capitalista che producono beni per il mercato mondiale. Distribuzione della terra alle/i contadine/i e alle/i contadine/i senza terra (famiglie o cooperative) per la produzione agroecologica. Abolizione delle colture OGM nei campi ed eliminazione dei pesticidi tossici (a partire da quelli il cui uso i paesi del Nord vietano ma di cui autorizzano l’esportazione nei paesi del Sud!).
6.7. Programma di costruzione di alloggi sociali e riforma urbana popolare
Il Sud ha alcune delle più grandi megalopoli del pianeta (Giacarta, Manila, Nuova Delhi, Bombay, San Paolo, e altre), un numero crescente di senzatetto e baraccopoli dove milioni di esseri umani (intorno a Karachi, Nairobi, Baghdad ,…) sopravvivono e lavorano in modo informale in condizioni indegne. È una delle ferite più orribili lasciate dalla dominazione imperialista. Oltre alla violenza, le ondate di calore rendono la sopravvivenza sempre più difficile, soprattutto nei climi umidi. L’alternativa ecosocialista sostiene il lancio di un vasto programma di costruzione di alloggi sociali accompagnato da una riforma urbana popolare che cambia l’organizzazione delle grandi città, progettate in collaborazione con le associazioni delle/i senzatetto. Deve essere articolata su una legislazione del lavoro che protegga le/i lavoratrici/ori, da un lato, e sull’attrattiva della riforma agraria, per avviare un movimento di contro-emigrazione rurale, dall’altro.
6.8. Decolonizzazione della conoscenza, riforma del sistema educativo
L’attuazione del programma di emergenza ecosocialista per i paesi del Sud ha un disperato bisogno di conoscenza e conoscenza decolonizzata, portata avanti da numerose/i e competenti insegnanti e ricercatrici/ori in tutte le discipline. La riforma del sistema educativo, l’espansione delle scuole pubbliche e delle università, la fine della discriminazione nell’istruzione, di cui le ragazze sono particolarmente vittime in alcuni paesi.
Numerosi studi scientifici dimostrano che la soddisfazione dei bisogni fondamentali delle persone nei paesi dominati avrebbe solo una modesta impronta di carbonio. La riduzione radicale dell’impronta di carbonio dei ricchi, e soprattutto del più ricco 1% – nel Nord e nel Sud! – sarebbe sufficiente a compensarla. Un dollaro speso per soddisfare i bisogni dell’1% più ricco genera trenta volte più emissioni di CO2 di un dollaro investito per soddisfare i bisogni sociali del 50% più povero della popolazione mondiale. (percentuale da verificare!!!)
Il discorso del “mettere al passo” da parte del Sud con il Nord è solo una chimera, una cortina fumogena per nascondere la continuazione dello sfruttamento capitalista e imperialista, che allarga le disuguaglianze. Con l’aumento dei disastri ecologici, questo discorso sta oggettivamente perdendo ogni credibilità. Ora non è il momento del “recupero” ma della condivisione del pianeta: i ricchi meno ricchi, i poveri meno poveri. Attraverso le loro lotte, le classi popolari del Sud possono contribuire in modo decisivo a coinvolgere gli sfruttati di tutto il mondo in questo percorso, l’unico compatibile sia con i diritti umani che con i limiti terrestri.
7. Controcorrente, far convergere le lotte per rompere con il produttivismo capitalista. Impadronirsi del governo, avviare la rottura ecosocialista basata sull’auto-attività, l’auto-organizzazione, il controllo dal basso, la democrazia più ampia.
L’economia, lo Stato, la politica della borghesia e le sue relazioni internazionali sono profondamente colpite dall’impasse eco-sociale in cui l’accumulazione capitalista e il saccheggio imperialista hanno gettato la società. In tutto il mondo, le/gli sfruttate/i e le/gli oppresse/i sono prese/i da una profonda angoscia.
Movimenti di resistenza si stanno sviluppando contro corrente. Anche in contesti estremamente difficili, le persone si battono per i loro diritti sociali, democratici, antimperialisti, ecologici, femministi, LGBTQI, antirazzisti, indigeni, contadini. Alcuni successi notevoli sono stati raggiunti: vittoria delle/i contadine/i indiane/i contro il governo Modi, vittoria delle/gli zadisti in Francia contro l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, vittoria delle donne nella lotta per l’aborto in Argentina, vittoria delle/i Sioux negli Stati Uniti contro il gasdotto XXL… Ma il nemico è in offensiva e molte lotte sono sconfitte. Il nostro compito, come attiviste/i della Quarta Internazionale, è quello di aiutare a organizzare ed estendere le lotte, portando la nostra prospettiva ecosocialista e internazionalista.
Il produttivismo delle forze egemoniche della sinistra, dei partiti e dei sindacati è un serio ostacolo sulla strada di una risposta ecosocialista commisurata alla situazione oggettiva. La maggior parte dei leader hanno abbandonato qualsiasi prospettiva anticapitalista. La socialdemocrazia e tutte le altre varianti del riformismo sono diventate social liberali e ambiscono solo a portare alcune correzioni sociali al mercato entro i limiti del quadro neoliberista. La maggior parte dei leader delle grandi organizzazioni sindacali si limitano ad accompagnare le politiche neoliberiste con l’illusione che la crescita capitalista migliorerà l’occupazione, i salari e la protezione sociale. Invece di organizzare una presa di coscienza dell’impasse ecosociale, queste politiche di collaborazione di classe l’approfondiscono e nascondono la sua gravità.
Fortunatamente, alcune forze politiche e correnti sindacali – in particolare in Europa, Stati Uniti e America Latina – stanno cominciando a prendere le distanze dal produttivismo e dal neoliberismo. Nei sindacati, le/gli militanti consapevoli della sfida ecologica hanno avanzato il concetto di una “giusta transizione”. La socialdemocrazia e i leader sindacali della CSI l’hanno dirottata nella direzione di sostenere il produttivismo e la competitività delle imprese. La classe dominante è esperta nella manipolazione. Così la “transizione giusta” ha fatto la fine dello “sviluppo sostenibile” nei discorsi dei governi che calpestano la giustizia e organizzano l’insostenibilità.
Nei paesi capitalisti “sviluppati”, i ranghi delle forze tradizionali sono stati rafforzati dai partiti verdi. Ci sono voluti quattro decenni perché la grande maggioranza di questi partiti raggiungesse la casta dei gestori del capitalismo. Il loro pragmatismo basato sulla responsabilità individuale dei consumatori è seguito nella società civile da numerose associazioni ambientali. Ha permesso alla socialdemocrazia e ai leader sindacali tradizionali di mascherare la loro collaborazione di classe in difesa del “male sociale minore” di fronte alle ecotasse e ad altre soluzioni cosiddette “realistiche” dell’ecologia “né di sinistra, né di destra”.
In altre parti del mondo, anche se ancora una minoranza, l’ecocosocialismo sta cominciando a guadagnare influenza nei movimenti sociali e nella sinistra radicale. Alcune importanti esperienze locali – a Mindanao, Rojava, e Chiapas, tra gli altri – hanno affinità con la prospettiva ecosocialista. Tuttavia, la crescita capitalista appare ancora falsamente ai più come l’unico modo per migliorare le condizioni sociali.
Le rivoluzioni arabe hanno creato una situazione potenzialmente favorevole per prendere in considerazione le sfide ecologiche, perché i popoli di questa regione si trovano ad affrontarle duramente. Purtroppo, la maggior parte di queste rivoluzioni è stata spietatamente schiacciata dalle forze reazionarie nella regione, con il sostegno dei loro rispettivi alleati imperialisti.
In America Latina, nonostante la retorica ispirata alla visione del mondo dei popoli indigeni, i governi progressisti non sono riusciti a stabilire traguardi significativi verso uno sviluppo alternativo, senza deforestazione, estrattivismo e combustibili fossili. La coraggiosa resistenza dei popoli indigeni non ha impedito al governo fascista di Bolsonaro di portare la distruzione dell’Amazzonia a livelli senza precedenti, come richiesto dall’agrobusiness.
Al di là dei crimini abominevoli contro il popolo ucraino e il loro diritto all’esistenza, la guerra di Putin contro l’Ucraina mirava a consolidare un imperialismo brutale, basato sullo sfruttamento illimitato delle risorse naturali. Gli oligarchi russi, le monarchie petrolifere, altri Stati e potenti interessi nell’industria dell’energia e del crimine costituiscono un’alleanza reazionaria, maschilista, omofoba e anti-scienza che cerca di influenzare l’opinione pubblica per prolungare il più possibile lo sfruttamento dei combustibili fossili.
Il partito comunista cinese pretende di mostrare ai paesi del Sud che possono sfuggire al dominio e svilupparsi entrando nelle Nuove Vie della Seta. In realtà, in nome dell’antimperialismo a buon mercato, il suo progetto di egemonia capitalista globale è uno dei principali motori della distruzione ecologica. Il suo primato come principale emettitore mondiale di gas serra dimostra la necessità per i paesi del Sud di un modo alternativo di sviluppo. La generalizzazione planetaria del “progresso” in stile cinese sferrerebbe un colpo mortale ai diritti democratici e agli equilibri ecologici, sulle spalle dei popoli.
Data la profondità della crisi e lo scompiglio, c’è il rischio reale di vedere una crescente tendenza nelle classi lavoratrici a sacrificare gli obiettivi ecologici sull’altare dello sviluppo, della creazione di posti di lavoro e dell’aumento del reddito. Questa tendenza non farebbe che accelerare la catastrofe di cui queste stesse classi sono già le prime vittime e approfondirebbe la perdita di legittimità dei sindacati. Si creerebbe anche terreno fertile per tentativi neofascisti di “inverdire” i progetti razzisti, colonialisti e genocidi. Le/i migranti in fuga dalle loro terre devastate sono i principali obiettivi di queste campagne di odio.
Il progetto socialista è profondamente screditato dai bilanci dello stalinismo e della socialdemocrazia. È dalle lotte che dobbiamo reinventare un’alternativa, non dai dogmi.
Chi è oggi in prima linea nel movimento reale? Popoli indigeni, giovani, contadine/i, persone razzializzate che pagano un prezzo pesante per la distruzione sociale ed ecologica. In questi quattro gruppi, le donne svolgono un ruolo decisivo, in relazione alle loro specifiche richieste ecofemministe, per le quali combattono e si organizzano autonomamente.
L’organizzazione contadina Via Campesina dimostra che è possibile combinare la difesa dei diritti delle/i contadine/i povere/i e dei popoli indigeni, la lotta contro l’estrattivismo e l’agrobusiness, la lotta per la sovranità alimentare e la conservazione degli ecosistemi con il femminismo.
La stragrande maggioranza delle/i salariate/i è assente o in disparte rispetto alle lotte anti-produttiviste. Alcuni ne deducono che la lotta di classe è superata, o deve essere condotta da una “classe ecologica” che esiste solo nella loro immaginazione. Ma fermare la catastrofe è possibile solo sostituendo la produzione di merci con la produzione di valori d’uso, determinati democraticamente. Come sarebbe possibile questa rivoluzione nel modo di produzione dell’esistenza sociale senza la partecipazione attiva e consapevole delle/i produttrici/ori? Inoltre, costituiscono la maggioranza…
Altri, al contrario, ne deducono che è necessario attendere il momento in cui la massa di lavoratrici/ori in lotta per le loro immediate rivendicazioni socioeconomiche avrà raggiunto il livello di coscienza che consente loro di partecipare alla lotta ecologica su una “linea di classe”. Ma come farebbe il livello di coscienza della massa di dipendenti a integrare le questioni ecologiche in tempo se nessuna grande lotta sociale arriva a scuotere il quadro produttivista all’interno del quale la massa di dipendenti, sempre più sulla difensiva, spontaneamente solleva le sue immediate esigenze socioeconomiche?
La lotta di classe non è una fredda astrazione. “Il vero movimento che abolisce lo stato attuale delle cose” lo definiscono e lo designano le/i sue/oi attrici/ori. Le lotte delle donne, delle persone LGBTQI, dei popoli oppressi, dei popoli razzializzati, delle/imigranti, delle/i contadine/i e dei popoli indigeni per i loro diritti non sono posti accanto alle lotte delle/i lavoratrici/ori contro lo sfruttamento del lavoro da parte dei padroni. Fanno parte della lotta di classe stessa.
Ne fanno parte perché il capitalismo ha bisogno dell’oppressione patriarcale delle donne per massimizzare il plusvalore e garantire la riproduzione sociale a un costo inferiore; ha bisogno della discriminazione delle persone LGBTQI per consolidare il patriarcato; ha bisogno di razzismo strutturale per giustificare il saccheggio della periferia da parte del centro; ha bisogno di “politiche di asilo” disumane per regolare l’esercito di riserva industriale; ha bisogno di sottoporre le/i contadine/i ai dettami dell’agroindustria produttrice di cibo-spazzatura per comprimere il prezzo della forza lavoro; e ha bisogno di eliminare il rapporto rispettoso che le comunità umane mantengono ancora dentro di sé e con la natura, per sostituirlo con la sua ideologia individualistica di dominio, che trasforma il collettivo in un automa e il vivente in cosa morta.
Tutte queste lotte e quelle delle/i lavoratrici/ori contro lo sfruttamento capitalista fanno parte della stessa lotta per l’emancipazione umana, e questa emancipazione è solo realmente possibile e degna di umanità nella consapevolezza del fatto che la nostra specie appartiene alla natura pur avendo, per la sua intelligenza specifica, la responsabilità, ormai inevitabile e vitale, di prendersene con la più grande cura. Tale è per noi, infatti, l’implicazione strategica derivante dal fatto che la forza distruttiva del capitalismo ha fatto entrare il pianeta in una nuova era geologica.
Questa analisi è la base della nostra strategia di convergenza delle lotte sociali ed ecologiche.
Questa convergenza delle lotte non dovrebbe limitarsi alla ricerca, tra movimenti sociali, o tra apparati di movimenti sociali, per il massimo comune denominatore in termini di rivendicazioni. Questa concezione potrebbe implicare di mettere da parte certe esigenze di certi gruppi – a scapito dei più deboli – vale a dire… il contrario della convergenza.
La convergenza delle lotte sociali ed ecologiche comprende tutte le lotte di tutte/i le/gli attrici/ori sociali, dai più esperti ai più esitanti. È un processo di articolazione dinamica, che eleva il livello di coscienza attraverso l’azione e il dibattito, nel rispetto reciproco. Il suo obiettivo non è la determinazione di una piattaforma fissa, ma la costituzione dell’unità delle/gli sfruttate/i e delle/gli oppresse/i nella lotta intorno a rivendicazioni concrete che aprono una dinamica volta alla conquista del potere politico e il rovesciamento del capitalismo in tutto il mondo.
In pratica, la convergenza ecosociale delle lotte implica soprattutto, oggi, che i settori più consapevoli delle minacce ecologiche si rivolgano ai settori più consapevoli delle minacce sociali, e viceversa, per superare insieme la falsa opposizione capitalista tra sociale ed ecologica.
In questo approccio, la difesa di un eco-sindacalismo che è sia lotta di classe che anti-produttivista svolge un ruolo essenziale, sulla base delle preoccupazioni concrete delle/i lavoratrici/ori per la salvaguardia della loro salute e sicurezza sul luogo di lavoro e sul ruolo di avvertimento sui danni agli ecosistemi e sulla pericolosità delle produzioni che esse/i sono nella posizione migliore per svolgere.
Come attivisti ecosocialisti, incoraggiamo la resistenza sul posto di lavoro attraverso scioperi e tutte le iniziative che promuovono l’organizzazione e il controllo delle/i lavoratrici/ori. Lavoriamo per rafforzare le mobilitazioni combinando l’estensione dello sciopero, la massificazione delle manifestazioni, promuovendo tutte le forme di auto-organizzazione e di auto-protezione della lotta contro la repressione, nonché la sua divulgazione per contrastare le bugie dei media dominanti e dell’apparato governativo.
Ci ispiriamo anche a forme di disobbedienza civile, al blocco dei siti, al boicottaggio dei pagamenti degli affitti, che hanno anche dimostrato la loro efficacia.
Le esperienze delle lotte aiutano ad alimentare il dibattito strategico.
Le lotte anti-produttiviste sono diverse, ma generalmente il loro punto di partenza è molto concreto, spesso locale, in opposizione a una nuova infrastruttura di trasporto (autostrada, aeroporto, ecc.), infrastrutture commerciali o logistiche, infrastrutture estrattive (miniere, condutture, mega-dighe, ecc.), l’accaparramento di terra o di acqua, la distruzione di una foresta o di un fiume, ecc. È in primo luogo la minaccia alla vita quotidiana, ai mezzi di sussistenza e alla salute che mobilita le persone, non il discorso generale. Affrontando i decisori politici, i gruppi capitalisti e le istituzioni che li proteggono, forgiando alleanze tra attrici/ori con storie e impegni diversi, la lotta diventa sempre più globale e politica.
Queste combinazioni di lotte ancorate in un territorio specifico con un obiettivo preciso e combattimento generale esistono in tutto il mondo e formano una nuova realtà politica chiamata “Blockadia”.
In Francia, contro il progetto dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, la convergenza di agricoltrici/ori, giovani attiviste/i radicali e residenti locali ha ottenuto il sostegno del popolo e dei sindacalisti, compresi quelli del concessionario, e ha portato alla vittoria. La strategia del Soulèvement de la Terre ha così permesso, a partire dalla questione dei mega bacini (enormi serbatoi d’acqua per l’irrigazione delle colture industriali), di sollevare la questione dell’acqua come bene comune da preservare contro la sua monopolizzazione da parte dell’agrobusiness.
Negli Stati Uniti, contro il Dakota Access Pipeline che minaccia di inquinare il Missouri e il Mississippi e che attraversa le terre sacre dei nativi Sioux, questi ultimi hanno stabilito un campo a Standing Rock, insieme a migliaia di persone, giovani, ambientaliste/i… Il campo ha resistito alla feroce repressione e ha costretto all’apertura di un’indagine sui pericoli del DAPL per l’ambiente. La battaglia legale e politica continua.
La formazione di una coscienza di classe ecosocialista implica una convergenza nelle lotte in cui le/i (giovani) scienziate/i possono contribuire utilizzando e condividendo le loro conoscenze (agronomica, climatica, naturalista…).
I comitati di sciopero, i centri sanitari comunitari, le fabbriche recuperate, le occupazioni di terra, gli spazi di vita autogestiti, i laboratori di riparazione, le mense, i banchi di sementi, ecc., consentono la sperimentazione di un’organizzazione sociale libera dal capitalismo. Permettono a coloro che sono privi di potere politico ed economico di sperimentare il loro potere e la loro intelligenza collettiva. Contraddicendo le illusioni su un possibile aggiramento o adeguamento del sistema, prima o poi si scontrano con lo Stato e con il mercato capitalista, dimostrando che è impossibile fare a meno del potere politico e del necessario rovesciamento del sistema. Tuttavia, stabilendo, anche temporaneamente, un’altra legittimità, popolare, solidale e democratica, le alternative concrete permettono alle/i dominate/i di prendere coscienza delle proprie forze e di lavorare per la costruzione di una nuova egemonia.
Più globalmente, la costruzione di organi auto-organizzati di potere popolare è al centro della nostra strategia.
La crisi sistemica del “tardo capitalismo” dominato dalla finanza transnazionale alimenta sia un disgusto di fronte ai fenomeni di scomposizione del regime borghese sia un sentimento di impotenza di fronte al profondo deterioramento, sia quantitativo che qualitativo, del rapporto di forze tra le classi. In questo contesto, la questione del governo assume maggiore importanza. La presa del potere politico è un prerequisito per l’attuazione di un piano che avvia una politica di rottura, ma gli ultimi anni hanno mostrato le illusioni mortali di progetti politici che sfruttano le aspirazioni popolari, incanalano le mobilitazioni, persino le soffocano in nome della realpolitik, e che fanno allora il gioco dell’estrema destra.
Non ci sono scorciatoie. Una strategia ecosocialista di rottura comporta la lotta per la formazione di un governo sulla base di un piano di transizione e la promozione sistematica dell’autoattività, dell’auto-organizzazione, del controllo e dell’intervento diretto da parte delle/gli sfruttate/i e delle/gli oppresse/i a tutti i livelli perché nessuna misura coerente contro lo sfruttamento, l’oppressione e la distruzione degli ecosistemi sarà imposta senza un rapporto di forza basato su questa auto-organizzazione.
L’autoemancipazione non è solo il nostro obiettivo, ma anche una strategia per rovesciare l’ordine stabilito. Bisogna costruire nuove istituzioni per deliberare, per decidere democraticamente, per organizzare la produzione e tutta la società… Questi nuovi poteri dovranno affrontare la macchina dello Stato capitalista, che deve essere distrutta. Il rovesciamento dell’ordine sociale, l’espropriazione dei capitalisti, si scontreranno inevitabilmente con la risposta violenta e armata delle classi dominanti. Di fronte a questa violenza, le/gli sfruttate/i e le/gli oppresse/i non avranno altra scelta che difendersi, si tratterà di auto-organizzare democraticamente la violenza legittima, rifiutando il virilismo e il sostituzionismo.
Riflettere e agire, costruire le lotte e gli strumenti della lotta, confrontare esperienze e imparare da esse: l’attuazione internazionale di questo immenso compito richiede uno strumento politico, una nuova Internazionale delle/gli sfruttate/i e delle/gli oppresse/i. Attraverso questo Manifesto, la Quarta Internazionale esprime la sua volontà di contribuire ad affrontare questa sfida.