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Lineamenti di un mutualismo politico

Linee guida per interpretare e praticare una solidarietà mutualistica conflittuale collegando l’approccio solidale a una visione di politica alternativa basata sul protagonismo diretto della working class.

Le esperienze fatte, le elaborazioni in corso, il dibattito che si sta formando, aiutano a descrivere i termini del mutualismo che ci interessa. Si tratta di un mutualismo in larga parte politico e conflittuale perché non accetta la dimensione di lenitivo delle fratture dell’esistente, non si integra in un processo di smantellamento dello stato sociale. Anzi. Si propone come antidoto a quel processo e come strumento per rafforzare forme inedite di servizio pubblico garantito a tutti e tutte e gestibile da tutti e tutte. Propone, cioè, una costituzione della società in forme e contenuti nuovi.

Nei suoi Appunti sulla riproduzione sociale, già citati, Alisa Del Re (Alisa Del Re, “Alcuni appunti sulla riproduzione sociale”) sottolinea che «una forte ambivalenza caratterizza sia il volontariato sociale che le forme cooperative no profit relative alla riproduzione degli individui. Se da un lato costituiscono straordinari dispositivi di soggettivazione, dall’altro sembrano perfettamente compatibili con le politiche di austerità in quanto strumenti di socializzazione dei costi di riproduzione. Non a caso da parte dei governi locali sempre di più si fa ricorso nelle emergenze al volontariato sociale e alla cooperazione. C’è il rischio concreto che le attività di riproduzione messe in comune diventino solo strumenti di gestione della povertà invece che dispositivi di riappropriazione della ricchezza». Si tratta di un’avvertenza importante perché il rischio è sempre in agguato se non si definisce una chiara direzione di marcia.

Un’esperienza di mutualismo conflittuale, in grado di traguardare l’orizzonte dell’esistente e di intravedere forme diverse dei rapporti sociali e produttivi e di redistribuzione delle risorse, deve poter pensare che la propria attività sia un tassello costitutivo di un nuovo ordine sociale. Se oggi esiste una “consultoria” autogestita dalle donne o un presidio sanitario indipendente è perché questi, nella loro esperienza di autogestione democratica, fondata su soluzioni giuridiche più o meno innovative, aspirano a un ampliamento delle garanzie offerte a chi ha bisogno, pietre di un mosaico in divenire.

Il mutualismo conflittuale è dunque politico nel senso che mentre esiste rivendica già il nuovo. Esprime una solidarietà “contro” lo stato di cose presente per allargare il campo dei diritti sociali, le garanzie pubbliche, servizi, diritti, spazi, ma esige anche una solidarietà “per”, fatta di risposte immediate a bisogni immediati. Il mutualismo è politico perché valorizza di nuovo “l’agire in comune”, la cooperazione non solo produttiva, ma morale, intellettuale, solidale su cui si è fondato il movimento operaio nella storia e che costituisce l’ingrediente essenziale affinché questo movimento possa far pesare politicamente e socialmente il suo essere “forza collettiva”.

Un programma generale

Per queste ragioni un progetto di mutualismo ha un programma generale, non si limita alla filantropia oppure a incunearsi nei vuoti individuabili nel processo di accumulazione capitalistica. Ha un programma relativo alla qualità del lavoro, rivendicando, ad esempio, un salario minimo legale per salvaguardare la dignità del lavoro, in particolare per le donne. Rivendica un reddito di base anche per favorire esperienze di cooperazione produttiva e quindi garantirsi spazi di società alternativi. Rivendica il diritto a un nuovo welfare, comune, autogovernato, modellato sui nuovi bisogni sociali, aperto e inclusivo, capillare e diffuso. Non si pone come ipotesi a metà strada tra il pubblico e il privato ma punta a scompaginare le asfittiche strutture esistenti, per costruire un nuovo modello. Propone, come ha fatto in forma esemplare il collettivo operaio e la Società di mutuo soccorso Insorgiamo alla Gkn, un piano di gestione alternativo della produzione, in chiave sostenibile ed ecologicamente orientato, rivendicando “l’intervento pubblico” non come nostalgia di dirigismi del passato, ma come supporto materiale all’autogestione operaia ampliata ai e alle solidali con le lotte e con le risorse produttive di un territorio.

Rivendica il proprio carattere multietnico e multiculturale, fondato sulla libera circolazione e sulla cittadinanza universale. Rivendica il suo essere femminista perché non può esistere una società migliore che non sia una società in cui tutt@ possano sentirsi agenti attivi e attive. Riconosce il valore del lavoro femminile e se interviene nel campo della riproduzione sociale lo fa per rivendicare diritti universali e, soprattutto, afferma una morale e una solidarietà in grado di scacciare il patriarcato e la violenza, di qualsiasi tipo, sulle donne.

Il mutualismo è politico perché, quando è conflittuale, si propone come uno strumento di mobilitazione, di organizzazione, progetta vertenze, aspira a ottenere obiettivi. Lavoro, reddito, terra, diritti sociali certi ed esigibili, praticati per poter essere codificati in conquiste durature. Gli strumenti del mutualismo sono strumenti di autorganizzazione per obiettivi più ampi e generali. Affermando le proprie istituzioni, il mutualismo indica quale società futura vuole realizzare, costruisce consenso e fiducia tra i propri aderenti, ne attira di nuovi. Si propone così come un’altra istituzione, un altro possibile potere, sfida i poteri esistenti. E, inevitabilmente, entra in conflitto con questi. Un conflitto che non può che essere di natura politica e complessiva. Secondo Dardot e Laval, «del comune degli operai del XX secolo» restano due modelli. Uno è quello dell’economia «sociale e solidale» in cui si racchiudono le esperienze delle associazioni, delle mutue, delle cooperative. L’altro, però, è la «forma rivoluzionaria» che raggiunge il suo culmine nel 1917 in Russia e, tra il 1918 e il 1921, in Germania, Ungheria, Italia. «Essa è ancora viva dopo la Seconda guerra mondiale: si può osservare il riemergere di aspirazioni e pratiche di autogestione a partire dal 1956 fino all’inizio degli anni Ottanta, in Ungheria, in Jugoslavia, in Cecoslovacchia, in Polonia e in molte imprese dei paesi capitalistici».

La realtà di inizio XXI secolo rende difficile pensare alla nascita di nuovi “consigli rivoluzionari”, ma quella forma, espressione alta della densità politica della “forza collettiva” variamente organizzata, sintesi puntuale di un percorso fatto di lotte economiche, di produzione cooperativa e di mutua solidarietà, costituisce, come scriveva Hannah Arendt, «l’unica alternativa democratica al sistema dei partiti» e «i principi su cui si basano sono seccamente opposti, sotto diversi aspetti, ai principi del sistema partitico». Se c’è un futuro da reinventare occorre partire da qui.