
Genere e classe, un rapporto complesso ma ineludibile
Un contributo alla riflessione del movimento femminista con due interviste: a Eliana Como portavoce di “Le radici del sindacato” in Cgil e a Margherita Napoletano del San Raffaele di Milano e della Cub Sanità.
Questo testo nasce da una serie di discussioni fatte in compagnie e in tempi diversi. E’ stato poi rielaborato come introduzione alle interviste di lavoratrici che pubblichiamo di seguito e che pubblicheremo nei prossimi mesi come modo di una specifica ricerca. L’ oggetto è il tema della classe con le sue implicazioni di genere, razza e generazione. L’intenzione è di dar vita a una riflessione il più possibile vicina alle pratiche di organizzazione e di lotta, che superi il distacco tra femminismo accademico e pratiche non accompagnate da riflessioni adeguate ai compiti di un presente difficile.
Sul tema della CLASSE un’osservazione ci sembra importante. Marx avrebbe voluto elaborare una teoria delle classi, sentì cioè la mancanza di uno studio sul tema nella sua produzione teorica. La morte precoce e l’interesse per altri temi gli impedirono di realizzare il suo proposito. C’è però nei suoi scritti una specie di filo rosso che vale la pena di segnalare perché è una di quelle intuizioni che aiutano meglio a capire ciò che è avvenuto dopo Marx. E soprattutto a capire il presente. In periodi diversi della sua vita Marx esprime l’idea che una classe è classe, se è capace di pensare e di agire come tale. Nell’Ideologia tedesca afferma che i diversi individui formano una classe, quando devono portare avanti una battaglia comune contro un’altra classe; in una lettera a Kugelmann parla del suo programma come un mezzo per agevolare la trasformazione degli operai in classe; nel 18 Brumaio, riferendosi ai contadini piccoli proprietari in Francia scrive che sono una classe ma non sono una classe. Formano infatti una classe perché vivono in condizioni economiche che distinguono i loro modi di vita, i loro interessi, la loro cultura da quella di altre classi e si contrappongono a esse in modo ostile. Non formano invece una classe perché non costituiscono una comunità e non sono in grado di esprimere un’unione e un’organizzazione politica. Marx ovviamente dice anche altre cose. Distingue tra “classe in sé” e “classe per sé”, concetti che però a un certo punto abbandona, usa il termine “classe” anche quando parla dell’operaio “bestia da soma”, prima che la “prassi sovvertitrice” lo riscatti. Questa utilizzazione anfibia del concetto non cancella le numerose affermazioni in cui Marx pensa la classe come qualcosa di vivo e attivo che il solo dato sociologico non spiega.
IL SIGNIFICATO DI CLASSE
Se la classe è per Marx un dato politico e non sociologico, esiste tuttavia una “classe possibile” (Pierre Bourdieu) cioè un settore della società che ha le potenzialità per diventare classe in senso compiuto. Come è noto, Marx individua queste potenzialità nelle persone costrette a vendere la loro capacità di lavorare (forza lavoro) perché prive dei mezzi della produzione. Affronta però la questione da due angoli di visuale diversi: quello del valore e quello dell’esperienza. I due angoli di visuale sono complementari. Il primo apre la discussione su chi o che cosa produca i beni, i servizi ecc. di cui l’umanità dispone. Marx risponde che il lavoro è la fonte di ogni valore. Anche l’accumulazione capitalistica è possibile solo grazie al dispendio di forza lavoro. Ma ciò che fa il proletario, come soggetto che pensa e agisce, è l’esperienza. Tra tutte e tutti coloro che subiscono l’estorsione di plus-lavoro gli operai e le operaie dell’industria rappresentano il “movimento reale”. I decenni di lotte e di organizzazione che essi hanno alle spalle già ai tempi di Marx dipendono da esperienze specifiche e dirette. Nella fabbrica si concentra infatti una grande folla di persone sconosciute l’una all’altra ma costrette a entrare in relazione tra loro, a collaborare e a imparare la solidarietà per l’interesse comune a resistere. Altri produttori di valore d’uso e/o di scambio sono isolati o frammentati e hanno scarsi legami tra loro e per questo più difficilmente approdano alla lotta. C’è però differenza tra un campo di concentramento e un soggetto di liberazione. Sono le esperienze di lotta, possibili per il livello di concentrazione e per il valore strategico del luogo in cui si realizza, a consentire esperienze e a mettere in moto la “prassi sovvertitrice”. Tra le esperienze, che la tendenza a resistere insieme e a organizzarsi consente, c’è quella di una socializzazione volontaria. Gli “operai comunisti”, per esempio, si riuniscono con l’obiettivo di organizzare la lotta, ma poi accade che il mezzo diventa scopo perché scoprono il piacere di una libera socialità, dell’unione e della conversazione. Ridiventano uomini e non più bestie da soma a disposizione del padrone, cominciano il processo di cambiamento indispensabile per diventare classe. Questa logica caratterizza anche altri soggetti di liberazione. Il femminismo ha fondato l’autocoscienza come pratica politica; Franz Fanon, intellettuale della decolonizzazione di cultura occidentale, afferma che il colonizzato si libera dell’inferiorità psicologica e culturale prodotta dalla colonizzazione attraverso la lotta. La prassi sovvertitrice può richiedere anche un lungo periodo di sperimentazione perché nella guerra di classe il proletariato deve cambiare soprattutto se stesso. Ma perché il processo di liberazione si metta in moto la classe possibile deve incontrare la filosofia. Anche con questa affermazione Marx non inventa, semplicemente si limita a teorizzare ciò che vede, cioè il processo di identificazione reciproca che proletarizza gli intellettuali e intellettualizza il proletariato.
La visione che Marx ha del rapporto tra forza lavoro e valore è stata criticata da una parte del femminismo, che si è definita marxista, perché nella critica ha utilizzato le nozioni e le preoccupazioni proprie del marxismo. Nel contributo al libro introdotto da M. Musto Silvia Federici riassume in modo efficace le tesi che hanno caratterizzato questo settore del femminismo italiano, ovviamente le sue in modo particolare. Sbrigativamente ne ricordo l’essenziale, contando sul fatto che sono note a tutte. Federici osserva che la funzione strategica della forza lavoro in Marx avrebbe dovuto avere come logica conseguenza una maggiore attenzione alla sua riproduzione. Anzi le attività che riproducono la forza lavoro avrebbero dovuto avere una parte fondamentale nell’analisi teorico politica marxiana. Marx riconosce che la riproduzione della forza lavoro è la condizione sine qua non della produzione capitalistica ma la circoscrive all’interno del solo circuito della produzione di merci. I lavoratori comprano l’occorrente per sopravvivere e riproducono se stessi nel consumarlo. Nessun accenno al lavoro domestico, indispensabile alla riproduzione: fare figli e allevarli, fare la spesa e preparare da mangiare, lavare e riparare gli abiti, curare le persone malate o anziane, fare l’amore per il semplice bisogno di farlo ecc. La separazione tra produzione e riproduzione ha come conseguenza la separazione tra ciò che è salariato e il resto delle “classi pericolose”. L’immagine del lavoratore viene costruita intorno alla figura del maschio bianco con posto fisso nel settore industriale con l’esclusione di un più vasto mondo di soggetti. Si realizza così nel movimento operaio di cultura marxista una complicità con la tendenza del capitalismo a produrre gerarchie tra gli sfruttati basata su molteplici fattori, cioè soprattutto su genere, razza ed età.
IL LAVORO DI FEDERICI
Non entro nel merito di questo discorso che mi sembra nella sostanza contenere elementi preziosi di analisi ed è oggi largamente condiviso dopo anni di equivoci e polemiche. Tuttavia, quando si affronta la critica a una storia come quella del movimento operaio bisogna comprendere bene quali siano stati i vuoti e gli intralci. Ci sono invece nel saggio di Federici alcune idee su cui bisognerebbe riflettere meglio, se si vuol procedere utilmente nei ragionamenti. Prima di tutto l’idea che bisogna ripensare le condizioni perché marxismo e femminismo inizino a cooperare. In realtà dopo Marx un settore del movimento operaio di cultura marxista attraverso l’attività politica di alcune donne si avvicinò progressivamente al femminismo, sia pure con un percorso faticoso e lento che va esaminato per intero. Federici per esempio ricorda l’ostilità di Clara Zetkin al controllo delle nascite ma dimentica o non conosce la storia dell’evoluzione del pensiero e dell’attività politica della rivoluzionaria tedesca. Gilbert Badia, biografo di Zetkin, ricorda che poco prima della sua morte Lenin diede il consenso alla proposta di Clara di convocare a Mosca un convegno femminista aperto a tutti i femminismi compresi quelli liberale e cristiano. Se si pensa alle imprecazioni di Zetkin contro il “femminismo borghese”, bisogna ammettere che le immense manifestazioni per il voto alle donne avevano prodotto un’evoluzione nella capacità di capire delle donne marxiste.
Il convegno non ebbe mai luogo, la commissione femminile dell’Internazionale fu sciolta e cominciò presto una marcia indietro che durò più o meno fino agli anni Sessanta del secolo scorso. La causa non furono i limiti reali e presunti dell’analisi di Marx, ma qualcosa di più concreto, vale a dire il processo di burocratizzazione del potere in Urss e di conseguenza del settore di movimento operaio che aveva fatto i più lunghi passi in avanti.
La vicenda politica di Kollontaj e Zetkin può aiutare ad avvicinarsi al tema del soggetto e del rapporto tra marxismo e femminismo. Entrambe infatti, sia pure in modo diverso, vissero e fecero vivere a molte donne esperienze di partecipazione, di lotta, di costruzione di strutture organizzative e di sintesi politica che per la dimensione storica non hanno precedenti, né episodi successivi dello stesso calibro. Si pensi per esempio al lavoro di Zetkin per la costruzione di una presenza femminile con una sua relativa autonomia nella socialdemocrazia tedesca. O al ruolo di Kollontaj nell’elaborazione del programma del primo governo bolscevico. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento il movimento operaio di cultura marxista è molto più indietro rispetto a quella storia e a un programma in cui c’erano il divorzio, l’aborto, la depenalizzazione dell’omosessualità, progetti di welfare molto favorevoli alle donne, misure per far aumentare la loro presenza nei luoghi decisionali della politica e molto altro poi dimenticato.
Anche una seconda idea potrebbe essere contestata. E cioè che la centralità del maschio bianco con posto fisso nel settore industriale sia l’effetto del vuoto di analisi nell’opera di Marx. Non si può negare che questo sia in parte vero, ma la ragione principale della centralità è molto più concreta e ha a che fare con il modo in cui Marx la individua nella realtà sociale e geopolitica dei suoi tempi. Brevemente: classe possibile è per lui quella che da decenni lotta e si organizza prima in Inghilterra, poi in Francia, in Germania e altrove; che ha già costruito organizzazioni proprie e ha i suoi capi, i suoi luoghi e la sua letteratura.
Le femministe che furono protagoniste dell’episodio di contatto tra marxismo e femminismo più interessante e importante della storia – “il periodo d’oro del movimento operaio di cultura marxista” tra la fine del XIX secolo e l’inizio della stalinizzazione dell’Urss – si mossero in una logica intersezionale, ovviamente senza utilizzare un concetto (l’intersezionalità) nato solo alla fine degli anni Ottanta del Novecento nel femminismo afro-americano. Oggi dovremmo dire che collocarono la parte principale del proprio lavoro politico nell’intersezione tra genere e classe, ma possiamo anche dire che considerarono interlocutrice la parte femminile del lavoro salariato e portarono avanti rivendicazioni e progetti che la riguardavano. Reclutarono le più combattive, portando in un movimento maschile e sessista il sospetto che la condizione femminile non fosse il prodotto della natura ma di forme diverse di oppressione e violenza. Tuttavia l’episodio raccontato dal biografo di Zetkin non è privo di significato. É la presa d’atto che il femminismo ha una dimensione anche trasversale. Il movimento suffragista reagì all’esclusione dal voto di tutte le persone di sesso femminile in un momento in cui i diritti politici venivano estesi a tutti coloro che ne erano stati fino a quel momento esclusi, ma non alle persone dichiarate femmine alla nascita. L’ondata degli anni Settanta fece perno sulla sessualità e rivendicò soprattutto nuove leggi sull’aborto che dessero alle donne una possibilità di scelta. Da alcuni anni infine, nella “terza ondata”, l’attenzione si è concentrata sulla violenza delle reazioni maschili alle libertà conquistate dalle donne o anche solo al rischio che possano agire per conquistarle. Per la loro conquista fondamentali sono state le dimensioni delle mobilitazioni, la radicalità di alcune lotte, la presenza in piazza ecc. che hanno attirato l’attenzione della politica, producendo molte conversioni maschili e hanno dato alimento ai piccoli gruppi e alle singole intellettuali che, tra un’ondata e l’altra, hanno continuato a costruire cultura e opinione. I movimenti di donne sono rifluiti per le ragioni per cui di solito questo avviene. Sono stati decisivi i cambiamenti del contesto, le differenze di interessi e cultura, la natura delle forze politiche che in modo diretto o indiretto li egemonizzavano.
Come la storia dimostra, l’incontro tra marxismo e femminismo non si realizza una volta per tutte. É possibile riprenderne il filo a partire dal tentativo di dare corpo al concetto di intersezionalità, in modo particolare all’asse più difficile e controverso, la classe. Ma chi o che cosa è oggi la classe? Questo non è un breve testo di sociologia: per rispondere bisognerebbe riprendere un concetto del primo operaismo, quello di composizione di classe, coniato dal sociologo Romano Alquati. Ci interessa invece per ora una ricerca il più possibile vicina alle pratiche sul diventare classe e sul ruolo che in questo processo hanno avuto e potrebbero avere le donne.
Una classe come la pensa Marx è qualcosa di più di un settore di lavoro subalterno con specifiche capacità di organizzarsi e di comprendere la società in cui vive. Una classe come dato politico ha proprie istituzioni, proprie simbologie, propri modi di concepire il genere, proprie culture ecc. Anche per questo l’idea che la lotta femminista sia lotta di classe solo quando pratica rivendicazioni di tipo sindacale o comunque economiche, non trova adeguati riscontri nella realtà. Certo salari di fame, orari massacranti, precarietà sono alla base di specifiche urgenze e priorità. Ma non è vero che il diritto all’aborto legale, assistito e gratuito non sia a suo modo lotta di classe. Tutta una serie di fenomeni, declassati al rango di una psicologia che non produce lotta, garantiscono oppure ostacolano la profittabilità capitalistica. Per esempio l’immagine di se stesse, dei loro doveri e del loro ruolo che hanno le donne. Per esempio il modo in cui vivono la loro sessualità e svolgono i compiti legati alla riproduzione. Per esempio l’obbligo all’eterosessualità, che è il prodotto dell’esigenza delle classi dominanti di servirsi dell’appoggio politico di caste e istituzioni conservatrici come le chiese e i movimenti religiosi. Diritti civili, pratiche che incidono sull’identità e sulla sessualità, mutamenti nel linguaggio ecc. possono essere obiettivamente anticapitalisti quando minano sistemi di potere elaborati e messi alla prova per secoli. In astratto il capitalismo può assorbire senza traumi il diritto all’aborto; in concreto questo diritto viene costantemente rimesso in discussione nello stesso mondo occidentale dalla Spagna, all’Italia, agli Stati Uniti. Non per caso, la battaglia femminista di Engels e Marx fu un tentativo di contestare la tesi dell’inferiorità femminile, naturalmente con gli strumenti culturali a disposizione nel loro tempo. Questo tipo di argomenti, agendo sul senso di sé delle donne, hanno spesso favorito le mobilitazioni e la fiducia nella possibilità di riscatto.
La composizione dei movimenti di donne crea un problema che è, in un certo senso, il rovescio del punto precedente. Questi movimenti sono costituiti da un proletariato spesso povero e precario ma con alti livelli di scolarizzazione che trasmettono l’illusione ottica del privilegio. Non si tratta però solo di illusione ottica, esigenze specifiche di questa frazione di lavoro subalterno lo separano da settori meno scolarizzati. L’uso di linguaggi criptici, la fascinazione per dibattiti complessi che si trasformano con poche mediazioni politiche in presenze forti nelle strade ecc. sono modi specifici del diventare classe di una parte di proletariato femminile. Per alcuni aspetti le sue caratteristiche ricordano quelle del movimento studentesco europeo degli anni Sessanta, anche perché la componente studentesca è numerosa, se si includono nella nozione di studente gli anni post-universitari di specializzazioni, stages e ricerca di un lavoro corrispondente al proprio titolo di studio. Come coinvolgere in una lotta di classe femminista donne meno scolarizzate o in altre fasi della vita è una domanda che i fatti pongono da tempo ma che non trova ancora risposta.
Qualsiasi discorso sull’intersezionalità, che non sia solo costruito su definizioni astratte, richiederebbe un lavoro sul campo. Servirebbe un’analisi delle lotte anticapitalistiche degli ultimi dieci anni. Dire qualcosa prima sarebbe semplice supponenza. Si possono certo formulare delle domande, ma senza l’illusione che domandare sia molto più semplice che rispondere. Problemi e difficoltà sono numerosi. Per esempio, ancora negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso c’era un settore di lavoro salariato (la classe operaia delle medie e grandi fabbriche) che per forza strutturale e politico-organizzativa tendeva a diventare punto di riferimento per altre rivendicazioni e altre lotte e quindi ad assolvere di fatto una funzione unificante. Le lotte più recenti sono sparpagliate, hanno storie e linguaggi diversi, si conoscono e si capiscono poco. Su questo piano il problema è che la mancanza di un centro rende la consapevolezza di evitare la dispersione anche più importante che in passato. Si tratta di una questione che è nello stesso tempo di composizione di classe e di direzione politica. Il marxismo (nel senso improprio di coloro che sono politicamente attivi e fanno esplicito riferimento a Marx) è fatto di piccoli nuclei marginali, con superstizioni cristallizzate, incapaci di collaborare lealmente e senza caricaturali smanie egemoniche. Non da oggi vengono dal femminismo utili suggerimenti, come per esempio le forme di organizzazione reticolari, che fanno da argine alla dispersione e nello stesso tempo preservano le differenze.
In questa fase della vicenda politica l’esigenza di un nuovo incontro si verifica in un contesto assai diverso da quello della prima e della seconda ondata. Il marxismo conosce infatti una crisi profonda, non tanto dal punto di vista dell’elaborazione teorica quanto da quello della presenza nella lotta di classe, delle sue forme organizzative e di una discussione legata a un’esperienza di pratiche. Mentre questa crisi si consumava, le donne hanno conosciuto un’ascesa legata a esigenze economiche del capitalismo stesso e a elementi di natura culturale e politica. Idee che un tempo erano esclusive del femminismo si sono diffuse. Sono cresciute la presenza e la credibilità del movimento LGBTQ+. Questa dinamica inversa non poteva durare oltre un certo limite: una lotta di classe in larga misura unilaterale (cioè di parte padronale) ha innescato un ciclo politico globale di destra e con questo il rischio di un arretramento complessivo.
Si può ipotizzare che in questo contesto tocchi alle donne femministe e marxiste il compito di prendere l’iniziativa di ricostruire una classe nel senso che Marx attribuisce al termine, a partire questa volta dalla sua componente femminile.
SERVE UNA CONVERGENZA TRA LAVORO E FEMMINISMO
Intervista a Eliana Como sindacalista per la Fiom Cgil e portavoce dell’area interna più radicale, chiamata “Le radici del sindacato”. In questo momento si occupa per la fondazione Di Vittorio di intelligenza artificiale e delle condizioni di lavoro nel settore del cinema e spettacolo dal vivo. E’ attivista del movimento Non Una di Meno e iscritta all’Anpi.
Se hai letto il testo che ti è stato inviato, ti sarà chiaro il significato della prima domanda e quello che cerchiamo. Quale è stata secondo te la lotta più significativa degli ultimi anni? Significativa vuol dire radicale, obiettivamente anticapitalista, caratterizzata da un livello superiore di quella che un tempo chiamavamo “coscienza di classe”.
La risposta è semplice. Una lotta con queste caratteristiche, o almeno più vicina di altre a questo modello ideale di coscienza di classe recuperata, è certamente quella della GKN. Come saprai, si tratta di una lotta per impedire licenziamenti e chiusura. Qui un forte collettivo di fabbrica ha gestito in modo prima di tutto intelligente la resistenza, coniugando radicalità, capacità di collegarsi ad altre lotte e di elaborare un progetto di re-industrializzazione. Il collettivo da 3 anni presidia i cancelli della fabbrica e nello stesso tempo interloquisce con il movimento per la giustizia climatica; difende il posto di lavoro e propone un piano di reindustrializzazione basato su mobilità leggera e rinnovabili. Direi, senza timore di esagerare, che si tratta di una lotta esemplare. Naturalmente molto dipende dai suoi esiti, ma resterà comunque una lezione su come si conduce un conflitto di classe. Il collettivo ha fatto tutto il possibile perché la sua lotta non restasse isolata e si spera che i sindacati e le istituzioni dirette dalla sinistra abbiano un riflesso non solo di solidarietà ma anche di autodifesa. Se poi mi chiedi quale sia il ruolo delle donne, ti rispondo che storicamente lavoravano in GKN in grande maggioranza operai, cioè persone di sesso maschile. All’inizio, i protagonisti della lotta erano per forza di cose praticamente solo uomini. Da subito, però, la vertenza si è aperta all’esterno della fabbrica, ad altre realtà solidali, che via via sono diventate parte integrante della lotta. Questo ha permesso di valorizzare anche tante donne.
C’è stato qualcosa di simile nelle lotte degli ultimi anni che abbia avuto come protagoniste delle donne?
Sì, c’è stata. Se n’è parlato meno e io stessa ne so di meno, perché a differenza di GKN non l’ho seguita bene e fin dall’inizio, anche se è stata più interessante dal punto di vista di una ricerca sull’intersezionalità. Per esempio una lotta di lavoratrici del settore tessile, di un’azienda (La Perla) dell’intimo di lusso, un marchio storico acquistato nel 2013 da un fondo finanziario americano. Le lavoratrici sono state per sei mesi senza stipendio e hanno reagito con una lotta molto determinata, creando anche un’associazione con un loro logo di lotta e iniziando a produrre magliette. In questo caso il mestiere è stato messo al servizio del conflitto. Un altro esempio potrebbe essere quello delle lavoratrici della YOOX di Bologna, quasi tutte migranti che si ribellarono a un accordo azienda-sindacati (CGIL compresa) che spostava i turni. Secondo l’accordo avrebbero dovuto lavorare in orari che andavano dalle cinque e trenta a mezzanotte. Anche in questo caso agirono positivamente la radicalità della lotta, la preoccupazione di evitare l’isolamento e un rapporto virtuoso con le istituzioni. Nella lotta delle lavoratrici della YOOX è stata coinvolta la società bolognese, intellettuali e artisti hanno manifestato la loro solidarietà mentre la consigliera delle Pari opportunità ha sollevato la questione del carattere discriminatorio dell’accordo nei confronti delle donne. É ovvio che donne giovani e con figli avrebbero avuto difficoltà talvolta anche insormontabili a lavorare in determinati orari. Il giudice ha imposto ai sindacati che avevano firmato il primo accordo di firmarne uno nuovo e non discriminante. Ti ricorderai poi di una lotta non recente contro il colore bianco delle tute da lavoro, in Stellantis (all’epoca era ancora FCA o forse addirittura FIAT). Di questo si parlò molto per il carattere insolito della rivendicazione. Le lavoratrici denunciarono l’imbarazzo provocato dal colore della tuta nei giorni delle mestruazioni. Era una cosa veramente dirompente parlare di mestruazioni in fabbrica e costruire su questo una rivendicazione legata alle condizioni di lavoro delle donne e persino a un fatto di sicurezza (per non sporcarsi erano costrette a posizioni di lavoro più scomode).
A questo punto rispondo anche alla domanda successiva. Mi volevi chiedere quali siano le preoccupazioni prevalenti delle lavoratrici. Sono preoccupazioni simili a quelle dei lavoratori ma con implicazioni diverse. Nella lotta delle lavoratrici dell’intimo di lusso lavoratrici cinquantenni temono, come altrove dei lavoratori, di perdere il posto di lavoro ma per le donne le difficoltà a riconvertire la propria vita in funzione di un nuovo lavoro sono maggiori. E ancora: la pensione è un problema per donne e per uomini, ma lo è di più per le donne per le ragioni che ci siamo più volte raccontate. Inoltre la conciliazione tra lavoro e famiglia resta uno dei temi dominanti, malgrado tutti i passi avanti nei rapporti di genere.
Non sono cose nuove ma è importante continuare a parlarne, anche perché spesso un movimento femminista composto da ragazze con alti livelli di scolarizzazione sorvola i problemi di lavori in cui il corpo è più immediatamente implicato. Ma volevo chiederti in conclusione qualcosa sui rapporti delle lavoratrici con sindacati e partiti. Anche delle operaie si può dire che in maggioranza votino Lega? Che cosa le spinge a destra? C’è una differenza anche minima?
Gli operai non votano Lega. Hanno votato per la Lega, poi per Forza Italia, poi per Fratelli d’Italia perché sono un settore abbandonato dalla politica. É l’antipolitica che spinge a destra il lavoro salariato. Vuoi sapere se le donne in qualche modo si differenzino? In un certo senso sì, ma non nel modo che forse ci piacerebbe constatare. A volte sono perfino più sfiduciate, per la semplice ragione che i loro bisogni sono anche di più trascurati. Per il sindacato il discorso è diverso. La sfiducia nei suoi confronti è dominante ma gli si riconosce una funzione parziale di argine e di organizzazione. Nella CGIL poi c’è uno spazio femminista (Belle ciao) con la sua piattaforma in parte anche condivisibile, ma il cui potenziale viene spesso neutralizzato dalle dinamiche burocratiche che conosciamo. Gli spazi delle donne dovrebbero essere autodeterminati, così come i percorsi di crescita delle compagne. Se invece rispondono alle normali logiche di potere rischiano di non servire a niente. Per rispondere in modo provocatorio ma simpatico, con le mie compagne più radicali dell’area interna di minoranza della Cgil, ci costruimmo uno spazio nostro autonomo e autodeterminato, chiamato Ribelle ciao.
Come viene percepita dalle lavoratrici l’ultima ondata femminista composta soprattutto da ragazze e giovani donne altamente scolarizzate, studenti e lavoratrici precarie della conoscenza? Che tu sappia, ci sono dei contatti? Non è facile rispondere. Quello del lavoro è un mondo troppo variegato e complesso per poter dare una risposta che non generalizzi una situazione particolare. Posso solo raccontare una mia specifica esperienza. Negli ultimi anni mi è capitato spesso di fare assemblee in posti di lavoro sui temi del femminismo, per lo sciopero dell’8 marzo o sul tema della violenza e delle molestie di genere. Le ho fatte in fabbriche molto femminilizzate, come per esempio la Electrolux a Susegana, con un’accoglienza strepitosa da parte delle operaie, anche se qualche maschio si alzava e andava via. E mi è capitato anche in fabbriche miste, come alla Bianchi di Treviglio. In questo caso l’assemblea era sulle molestie. Era dicembre dell’anno scorso, c’era da poco stato l’assassinio di Giulia Cecchettin. Alla fine, rivolgendomi in particolare agli operai presenti, ho letto una parte del discorso del padre al funerale, quella in cui parla del cambiamento necessario nel modo di essere e di comportarsi degli uomini. Portare questa tematica in fabbrica non è facile, ma l’impatto può poi essere molto forte e positivo. Considero infatti questo tipo di esperienze tra le più importanti che io abbia fatto. Proprio queste esperienze mi hanno convinta che è necessaria una convergenza tra il mondo del lavoro e il movimento femminista. Ripeto: non è facile ma, quando finalmente ci si riesce, se ne raccolgono i frutti. Serve alle lavoratrici e serve al movimento perché le condizioni materiali di lavoro e di esistenza delle donne sono un tema irrinunciabile tanto sul piano dei diritti civili quanto su quello dei diritti sociali.
LA RADICALITA’ VIENE ANCHE DAI FRIDAY FOR FUTURE
Intervista a Margherita Napoletano ingegnere clinico all’Ospedale San Raffaele di Milano delegata sindacale e rappresentante delle lavoratrici e dei lavoratori per la sicurezza della Cub sanità.
Se hai letto il testo che ti è stato inviato, ti sarà chiaro il significato della prima domanda e quello che cerchiamo. Quale è stata secondo te la lotta più significativa degli ultimi anni? Significativa vuol dire radicale, obiettivamente anticapitalista, caratterizzata da un livello superiore di quella che un tempo chiamavamo “coscienza di classe”.
Certamente quella della GKN. Però mi piace anche pensare che la stessa radicalità e coscienza di classe si trovi nel movimento nato per iniziativa di Greta Thunberg e diffusosi in tutto il mondo soprattutto tra i suoi coetanei. I giovani di Fridays for Future non sono solo preoccupati per l’ambiente e per la distruzione del pianeta ad opera della specie umana, ma mettono in discussione il modello di sviluppo e di società. Ho partecipato ad alcune riunioni a Milano e trovo in loro grande preparazione, volontà di scendere nelle piazze e coinvolgere altri giovani. Certamente rappresentano il movimento con maggior seguito e capacità di mobilitazione. Hanno avuto anche la capacità di imporre il tema nell’agenda politica, nonostante l’interesse della classe politica sia solo elettorale. Infatti, le militanti e i militanti di Fridays denunciano multinazionali, governi e politici che fanno green washing, sapendo che non basta utilizzare il tema della salvaguardia del pianeta e della transizione economica nella comunicazione istituzionale ma occorre un cambiamento radicale nel sistema produttivo globale. É un movimento internazionale e pacifista, schieratosi decisamente contro il genocidio in atto in Palestina. Al suo interno, oltre a Greta Thunberg, molte giovani donne esprimono il proprio attivismo, con elevata coscienza di classe e di genere.
C’è stata qualcosa di simile nelle lotte degli ultimi anni che abbia avuto come protagoniste delle donne?
Pensando alla generazione precedente a quella delle studenti di Fridays for Future, qualche anno fa ho attivamente partecipato, in quanto direttamente coinvolta sia come dipendente sia come delegata sindacale, alla lotta delle lavoratrici dell’Ospedale San Raffaele di Milano, contro i licenziamenti collettivi. Due colleghe salirono sul tetto, al nono piano, ci fu un presidio permanente che durò duecento giorni e dormimmo nelle tende, all’ingresso dell’ospedale per tutto l’inverno. Ci furono assemblee, cortei – perfino in tangenziale – con un coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici anche di altre realtà, non solo sanitarie, e dei pazienti dell’Ospedale. Firmarono in sedicimila una petizione che chiedeva che l’Ospedale, nato e cresciuto come privato convenzionato, diventasse pubblico, con lo slogan “La salute prima del profitto”. Protagoniste assolute furono le lavoratrici, che condussero la lotta. Purtroppo, la Regione non acquisì il San Raffaele, che venne invece svenduto al Gruppo che detiene il monopolio degli ospedali lombardi. Si salvarono i posti di lavoro, sacrificando parte del salario di tutte e tutti i dipendenti non dirigenti e, a distanza di decenni, non si è ancora recuperato quel taglio. Anzi, la nuova proprietà, che per quasi un decennio non era riuscita ad imporre il contratto della sanità privata, anche grazie agli scioperi organizzati per il mantenimento della dinamica salariale e di gran parte degli istituti normativi pari a quelli della sanità pubblica, approfittò dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid e all’impossibilità di scioperare e mobilitarsi, per lo scippo del contratto collettivo nazionale. Negli ultimi anni, la stanchezza e il burn out accumulato dalle lavoratrici e dai lavoratori, l’aumento delle aggressioni anche da parte dell’utenza, ha portato ad una fuga di lavoratrici: prepensionamenti, ma anche radicali cambiamenti professionali. Per qualcuna, anche l’amarezza di aver subito l’imposizione di una vaccinazione, basata su una menzogna (che i sanitari non vaccinati potessero trasmettere più facilmente la malattia), con dei vaccini che ancora non avevano completato il normale iter necessario per l’autorizzazione.
Non sono cose nuove ma è importante continuare a parlarne, anche perché spesso un movimento femminista composto da ragazze con alti livelli di scolarizzazione sorvola i problemi di lavori in cui il corpo è più immediatamente implicato. Ma volevo chiederti in conclusione qualcosa sui rapporti delle lavoratrici con sindacati e partiti. Anche delle operaie si può dire che in maggioranza votino Lega? Che cosa le spinge a destra? C’è una differenza anche minima?
All’indomani delle ultime politiche, che hanno dato vita al governo Meloni, mi sono seduta in mensa di fianco ad una collega ausiliaria, iscritta al mio sindacato, la CUB, che mi dice: “Speriamo che adesso facciano cambiare le cose con tutti questi immigrati!” Le faccio notare che senza i lavoratori migranti l’Ospedale chiuderebbe. Sono stranieri o di origine straniera la maggior parte dei lavoratori degli appalti (pulizie, ritiro dei rifiuti), una buona percentuale del personale di supporto e di infermieri e un numero sempre maggiore di medici. Qualcuno, arrivato in Italia clandestinamente, ha ottenuto il permesso di soggiorno con una sanatoria. Quando in assemblea parliamo di uguaglianza, di diritti universali riceviamo consenso. Ma le sirene populiste, attraverso i media sono riuscite a far credere a molti che il problema siano le migrazioni e non il modo in cui la ricchezza è distribuita.
Certamente la politica e il sindacato hanno un problema di linguaggio. A volte anche di credibilità, perché la burocratizzazione crea posizioni di privilegio che allontanano la classe operaia da chi dovrebbe difendere i suoi diritti. Nel meccanismo di delega, c’è ancora la perversione per cui le elettrici scelgono rappresentanti maschi: un retaggio patriarcale, così come nel voto a partiti che esplicitamente calpestano l’emancipazione femminile.
Come viene percepita dalle lavoratrici l’ultima ondata femminista, composta soprattutto da ragazze e giovani donne altamente scolarizzate, studenti e lavoratrici precarie della conoscenza? Che tu sappia, ci sono dei contatti?
Nella mia realtà lavorativa, un gruppo di ricercatrici ha avviato un ottimo lavoro di sensibilizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici sulle questioni di genere. Sono molto preparate e riescono a coinvolgere molte esperte sui vari temi, dalla medicina di genere ad approfondimenti su genere e lavoro, sulle molestie, sugli stereotipi. Attraverso bollettini periodici diffusi a tutte e tutti i dipendenti, con la mail aziendale e utilizzando corsi di formazione a distanza, raggiungono lavoratrici e lavoratori. Mi piacerebbe che in futuro si riesca a instaurare un rapporto meno virtuale e che le proposte, nonché le azioni di miglioramento vengano concretamente attuate, anche attraverso le trattative e gli accordi sindacali.
In generale, rispetto ai due appuntamenti principali lanciati dalle giovani femministe, il 25 novembre e l’8 marzo, vedo che in piazza scendono molte studentesse insieme alla generazione delle madri, in gran parte lavoratrici, e delle nonne, che negli anni ’70 manifestavano con il ferro da stiro nelle borse. Certamente le manifestazioni di oggi sono più pacate, pur mantenendo vivacità e la radicalità delle rivendicazioni.
A Milano un gruppo, formato da giovani universitarie e lavoratrici, con lo slogan “Costruiamo la riscossa delle lavoratrici” e il logo “Coordinamento Donne lavoratrici alla riscossa”, sta cercando di mettere in rete giovani donne provenienti dal mondo della scuola, con delegate sindacali e lavoratrici, per rivendicare diritti di genere, con una prima iniziativa pubblica che ha denunciato la mancanza di tutela della salute e sicurezza delle lavoratrici, sacrificate in nome del profitto.