
Ecofemminismi e cultura occidentale
Le idee del femminismo ecologico contrastano l’ipotesi di una “essenza femminile” per risalirne alla costruzione storica e sociale che assegna alle donne il compito della riproduzione sociale. Una struttura che va rivoluzionata.
Introduzione
In Italia il pensiero ecofemminista viene spesso identificato con una delle sue correnti, storicamente segnata dal pensiero e dalle pratiche delle sue fondatrici, ambientaliste del Nord e del Sud del mondo, che tendevano ad interpretare in modo essenzialista il legame privilegiato delle donne con la natura. Erano gli anni, 80, in cui una parte del femminismo italiano e non solo riscopriva e cercava di risignificare la maternità e i “valori femminili”, individuando in un patriarcato a-classista e a-storico il nemico universale.
Questa impostazione, avversata dalle femministe marxiste, spiega probabilmente il disinteresse nelle evoluzioni successive del pensiero ecofemminista, sviluppatosi innanzitutto nella sfera ispanofona e lusofona del mondo e basato, in particolar modo in America Latina, su pratiche ormai pluridecennali di lotta e di sperimentazioni di economia femminista. Questa corrente che ha preso il nome di femminismo ecologico o ecofemminismo costruttivista afferma che non c’è una essenza femminile che lega le donne alla natura, ma che si tratta di una costruzione storica e sociale che attribuisce alle donne, diversificate per classe e per collocamento geopolitico, il compito della riproduzione sociale, un compito inevitabilmente e intrinsecamente collegato con i corpi, con i cicli della vita e con le risorse naturali.
Le loro elaborazioni teoriche, di cui presentiamo una piccola sintesi nell’estratto che segue, hanno contribuito a rovesciare le concezioni riduttive di “economia”, “lavoro” e “valore” insite nel capitalismo patriarcale, proponendo un modello di società centrato sulla cura del vivente come condizione per un’economia che sia in funzione dei bisogni di tutte e tutti.
Estratto da: “La vita in comune in tempi di emergenza. Appunti dalla prospettiva della sostenibilità della vita” di Yayo Herrero (in dialogo con Veronica Gago), nel libro Ecofemminismi.
La cultura occidentale si è costruita sull’idea del dominio dell’Uomo sulla natura e dell’Uomo sulle donne. Una delle vie più efficaci nella costruzione della cultura del dominio è consistita nel consolidamento di un pensiero duale, che affonda le sue radici nella cultura classica e impregna la costruzione della Modernità, del soggetto illuminato e della logica coloniale.
Platone stabiliva una distanza profonda tra il mondo delle idee e quello delle cose. Per lui, il pensiero, immateriale, immutabile e eterno, ordinava il mondo. Al lato opposto, quello del mondo delle cose, si trovavano la materialità terrestre e quella dei corpi, essenzialmente caotica, mutevole, mortale e corruttibile. Nel suo schema di pensiero ciò che concedeva la condizione umana era il logos, separato dal corpo che concepiva come un supporto immanente e effimero in cui risiedeva temporaneamente l’anima eterna e trascendente.
Il pensiero duale prese corpo nell’organizzazione sociale e politica. Nella democrazia ateniese erano gli uomini i titolari della cittadinanza, coloro che dibattevano nello spazio pubblico per determinare qual’era l’interesse generale e in funzione di questo organizzare la vita comune.
Le donne, nel frattempo, occupavano il “loro” posto nello spazio domestico. Lì partorivano figli e figlie dei cittadini e si occupavano di garantire la riproduzione sociale, senza che la loro funzione permettesse loro di acquisire lo status di cittadinanza. Neppure gli schiavi e le schiave, costretti a coltivare, pescare, estrarre materiali per la costruzione o fabbricare utensili e oggetti personali, ossia incaricati di interagire con la natura per ottenere il necessario per mantenere le condizioni di vita, avevano la condizione di cittadinanza.
Il soggetto politico, protagonista della democrazia a Atene, è l’uomo libero dalle obbligazioni che derivano dal fatto di avere un corpo e di essere una specie. Non si prende cura di altre persone, non si prende cura di se stesso. Non interagisce con la natura per ottenere ciò che è necessario per soddisfare i bisogni né è cosciente dei suoi limiti e restrizioni. E’ assente nei compiti che consentono di garantire la riproduzione quotidiana e generazionale dell’esistenza, ignora la complessità di questa conoscenza pratica e situata…Però è lui che decide, che partecipa alle decisioni su ciò che è il bene comune e l’interesse generale. Si erige come soggetto politico senza avere la conoscenza né l’esperienza dei compiti e dei processi necessari per garantire le condizioni dell’esistenza.
Secoli dopo, il razionalismo moderno approfondisce la visione platonica che separa mente e corpo. Cartesio considera il corpo come una collezione di organi e membri, che agiscono obbedendo a leggi fisiche. L’essenza umana risiede nella capacità di ragionare. Il corpo, per lui, è solo il contenitore che ospita ciò che attribuisce la condizione umana: la ragione. Il pensiero rimane disincarnato e il corpo disumanizzato.
Newton, qualche anno più tardi, “scopre” il carattere meccanico della natura. La complessità dell’universo e della vita viene ridotta alla logica della macchina. La scienza diventa l’arte del controllo e del dominio di questo sottomesso automa. La natura cessa di essere un organismo vivente complesso per diventare una rete misurabile, organizzata da leggi fisiche e universali, suscettibile di essere dominata dalla ragione.
Il femminile, dicotomicamente separato dal maschile, cade dalla stessa parte della natura, del corpo, della sfera domestica e si giustifica così anche la sua sottomissione e il suo dominio. L’essere umano maschile, occidentale e razionale, scorporato dalla natura, liberato dalla cura del proprio corpo e deresponsabilizzato rispetto agli altri, diventa un soggetto astratto che determina la Storia.
Che gli esseri umani possano vivere “emancipati” dalla natura, dal loro corpo o dalle relazioni con il resto delle persone, non è altro che un’illusione. Sono le donne, i beni e i cicli naturali, altri territori, altri popoli e altre specie che mantengono e supportano le conseguenze ecologiche, sociali e quotidiane di questa supposta vita indipendente.
Non tenere conto della corporalità umana permette di ignorare le conseguenze sociali e politiche dell’essere esseri vivi inseriti nella natura. Solo una minoranza di uomini, e ancora meno di donne, possono vivere esternalizzando le loro obbligazioni corporali, economiche e sociali. Il problema è che l’impossibile universalizzazione di questa gerarchia non impedisce che il mondo pubblico sia organizzato come se i privilegiati fossero il soggetto universale.
Anche se la scienza ha stabilito lungo il XX secolo che la natura e i corpi non erano macchine prevedibili, bensì strutture complesse e autorganizzate, l’idea del progresso ha continuato ad essere legata a quella del dominio, al superamento dei limiti e alla strumentalità del vivente. La maggior parte della cittadinanza occidentale non si sente ecodipendente e considera che la scienza e la tecnica saranno capaci di risolvere qualsiasi problema, inclusi quelli creati da essa stessa. Si professa così, in modo maggioritario, un fondamentalismo tecnolatrico che fa credere, acriticamente, che ci si inventerà sempre qualcosa per sostituire materiali o risorse energetiche che si degradano a tutta velocità. Allo stesso tempo, l’imminenza e la necessità delle cure dei corpi si nasconde in comunità e asili, dove sono in maggioranza le donne a occuparsene. Ma per lo più si realizzano in ambito famigliare e in forma gratuita. Quando la cura si monetizza, sono soprattutto donne impoverite, migranti, e razzializzate ad assumere questi lavori, i peggio pagati e meno protetti sul mercato del lavoro.
L’economia convenzionale al margine della Terra e dei corpi
Sullo sfondo delle concezioni dicotomiche che separavano “l’uomo” dalla natura, l’economia convenzionale, oggi egemonica, si basa su alcune credenze nefaste dal punto di vista degli ecosistemi e del benessere delle persone, che bisogna svelare per riorientare la conoscenza economica e le soggettività create dall’economia capitalista.
Il primo degli errori è la riduzione del concetto del valore a quello del prezzo. L’unica cosa che ha valore è quella che si può esprimere in unità monetarie. La produzione diventa qualsiasi processo mercantile in cui c’è un aumento del valore, misurato in termini monetari, indipendentemente dal fatto che il prodotto serva o meno a soddisfare bisogni. Ma l’impollinazione, il ciclo dell’acqua, la regolazione del clima o i lavori che le cosiddette casalinghe fanno a casa non hanno un valore monetario. Si rende invisibile e si espelle dal campo dello studio economico la complessità della rigenerazione naturale e di tutti i lavori umani che sostengono la vita ma che, per il fatto di non essere pagati, non si traducono in crescita economica.
Se guardiamo solo la dimensione che crea valore nel mercato, ossia il prezzo di quello che si compra e che si vende, e non contabilizziamo le esternalità negative (l’esaurimento, l’inquinamento, o l’alterazione dei cicli), puntiamo alla crescita esponenziale della produzione di qualsiasi cosa, senza valutare se ciò che produciamo sia desiderabile o no dal punto di vista dei bisogni umani.
Quando la produzione si misura esclusivamente in euro, l’economia e la società non si fanno domande sulla natura di ciò che si produce e si finisce per non poter distinguere tra la fabbricazione di bombe a grappolo e la coltivazione del grano. Sono entrambi produzioni che si misurano monetariamente, ma dal punto di vista della loro utilità sociale una delle due distrugge la vita e l’altra l’alimenta.
L’economia convenzionale celebra qualsiasi tipo di produzione che crea beneficio economico (profitto), nonostante si distrugga lungo la strada il presente e il futuro di persone ed ecosistemi. Considerando solo le dimensioni monetizzate, l’economia convenzionale si organizza intorno alla crescita economica come obiettivo e tralascia di interrogarsi sulla natura di questa produzione che crea la crescita. Concentrata nella creazione dell’offerta, l’economia convenzionale non si chiede in quale modo soddisfare le necessità, né come si svolgono le vite quotidiane, ma si occupa solo di quanto cresce il denaro. Così il denaro diventa una credenza sacra. La maggior parte della gente crede e sente che, prima dell’acqua, della casa, del cibo o della cura, ha bisogno del denaro. E questa credenza è così radicata che assume una specie di “logica sacrificale”. Se ciò di cui abbiamo bisogno è il denaro, tutto può essere sacrificato affinché l’economia cresca.
La crescita giustifica che si cancellino i diritti del lavoro, che si distrugga il territorio, si eliminino i servizi pubblici, si espellano e si assassinino le persone che resistono all’estrattivismo, si cementifichi il territorio, si privatizzi la sanità, l’acqua e l’educazione o si cambi il clima. Qualsiasi cosa merita di essere sacrificata di fronte al fine superiore del profitto. E lo abbiamo talmente incorporato nei nostri schemi razionali che sono minoritarie le voci critiche che denunciano il rischio di perseguire la crescita economica come fine a sé, senza chiedersi a quale costo, per soddisfare che cosa e chi si appropria dei benefici di questa crescita.
In questa riduzione dell’economico allo strettamente monetario, il lavoro diventa solo ciò che si fa nella sfera mercantile in cambio di un salario e tutte le funzioni che si realizzano nello spazio della produzione domestica, che assicurano la riproduzione e la cura non sono considerate lavoro, anche se sono ovviamente indispensabili, sia per la sopravvivenza sia per fabbricare questa “merce” che è la mano d’opera.
Questa nozione del lavoro porta con sé l’idea di un corpo appropriato per rispondere alle richieste di regolarità e di automatismo insiti nella dinamica della produzione capitalista: il corpo diventa una macchina. Però la sua rigenerazione e riproduzione non è responsabilità dell’economia, che se ne disinteressa e le confina nello spazio domestico. Lì, fuori dallo sguardo pubblico, le donne assumono, in forma non libera, la cura della vita, una funzione svalorizzata malgrado che sia imprescindibile sia per una sopravvivenza dignitosa che per la riproduzione stessa del capitalismo.
Una teoria economica sconnessa dalla terra e patriarcale riattualizza l’esistenza di questa specie di soggetto astratto, ora risignificato come Homo economicus, un essere che ogni giorno concorre sui mercati e compete ferocemente con gli altri per soddisfare il proprio egoismo. Questo soggetto astratto si incarna soprattutto nei corpi maschili ma anche in corpi di donne che esibiscono privilegi di fronte ad altre persone spesso impoverite o migranti. Presumibilmente in altri ambiti della società, fuori dall’economia che si pretende autoregolata e isolata dal resto della vita, dove invece si deve assicurare l’equità e il mutuo soccorso.
Paradossalmente, è lo spazio mercantile, in cui sono sospese la reciprocità e la considerazione dei limiti, che organizza lo spazio e il tempo. Le relazioni di ecodipendenza e di interdipendenza rimangono subordinate alla logica dell’utilità economica che non ha come priorità il benessere delle persone bensì la massimizzazione dei profitti.
Per costruire una economia adeguata agli esseri umani, la produzione e il lavoro devono essere vincolate al mantenimento delle condizioni di vita delle persone. Ci sono produzioni e lavori che sono socialmente necessari e altri che sono socialmente indesiderabili. Distinguere tra i due è imprescindibile e gli indicatori monetari non permettono di discriminare tra le attività che soddisfano bisogni umani e quelle che esauriscono le risorse, alterano i cicli, sfruttano le varie forme di vita, senza,inoltre, garantire le condizioni di vita delle maggioranze sociali.
La falsa dicotomia produzione/riproduzione
L’economia ecologica ha fatto sforzi importanti per ancorare l’analisi economica nella natura e questo ha portato alla messa in discussione di un concetto di produzione che consisteva piuttosto nell’acquisizione di ricchezza preesistente, la sua trasformazione e la sua vendita con beneficio (Naredo 2006). L’economia femminista si è focalizzata di più nel disfacimento della stretta e artificiale separazione tra produzione e riproduzione.
Perché esista la generazione di eccedenti sociali in termini capitalistici c’è una precondizione: la produzione della vita. Pertanto la separazione tra produzione e riproduzione è un artificio discorsivo, non c’è riproduzione senza produzione e viceversa. La cura, per quanto disprezzata, è il tipo di lavoro/servizio non pagato che si esige dalle donne nel patriarcato capitalista. Anche se la società denigra questo lavoro, la riproduzione sociale sarebbe impossibile senza.
Le donne attraversano le frontiere del mondo pubblico della produzione e quello privato della riproduzione. Transitano anche come ponte tra la società e la natura, dimostrando che la produzione di bambini e il lavoro di prendersene cura non sono più naturali o meno sociali di altri lavoro (Shiva e Mies, 1997). Tutti questi rappresentano il lavoro dell’essere specie, cioè, l’interazione dell’umanità con la natura. Separando produzione e riproduzione, il patriarcato ha creato un’idea di falsa libertà che ignora i parametri biologici ed ecologici. La trascendenza individuale è costruita socialmente contro la natura e a costo di coloro che si occupano della cura quotidiana e generazionale dei corpi, lavoratori che “producono” tempo, spazio e risorse per altri. Le attività umane, comunitari e naturali di riparazione, rinnovamento, rigenerazione, e riproduzione forniscono le condizioni materiali e sociali necessarie per la produzione di beni, lo scambio di mercato e l’accumulazione di capitale. In questo senso il capitalismo è una forma di parassitismo (O’Connor, 1994) che si basa sullo sfruttamento, la dominazione, la violenza e l’oppressione. Una minoranza umana – in larghissima parte maschile, ma anche di donne privilegiate – può vivere come se non avesse un corpo o come se non avesse limiti. Questo parassitismo crea, per il capitale stesso, uno stato di contraddizione permanente con le condizioni che lo rendono possibile.
Ignorare la soddisfazione dei bisogni di tipo biologico genera un concetto di mondo pubblico che divide in compartimenti l’esistenza umana. Si prendono decisioni che si basano sulle necessità dello spazio pubblico senza tener conto della complessità dell’esistenza delle persone. Gli essere umani stanno sempre nella storia e nella natura. Di fronte alla crisi globale, risulta fondamentale creare una politica per la connettività delle persone con la natura. Le donne sono attrici privilegiate per la ricostruzione perché sono sempre state protagoniste di pratiche che sono insieme sociali e naturali.
Introduzione e traduzione a cura di Nadia De Mond