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Daniel Bensaid, quella voce che ci manca

Il ricordo di Edwy Plenel, già direttore di Mediapart, a quindici anni dalla scomparsa dell’intellettuale francese, marxista, rivoluzionario, una “sentinella” del tempo presente.

“La prima virtù delle rivoluzioni è quella di aprire l’orizzonte delle possibilità. Per i conservatori, sostenitori di disordini consolidati e di ordini ingiusti, la storia è sempre scritta in anticipo, lastricata di fatalità e di determinismi, di fardelli economici e di soggezione politica. Quando, grazie all’evento rivoluzionario, i popoli del mondo irrompono sulla scena senza preavviso, tutti questi falsi dati e certezze illusorie finiscono improvvisamente. La storia si apre allora a infinite possibilità e varianti in cui la politica torna a essere un bene comune, condiviso e discusso, su cui la società torna ad avere il controllo”.

 

Ho scritto queste righe nel 2011 indirizzate alla regista Carmen Castillo, a sostegno del suo progetto cinematografico di cui Daniel Bensaïd sarebbe stato il filo conduttore, On est vivants, uscito nel 2014. Daniel era morto un anno prima, il 12 gennaio 2010, all’età di 63 anni, a seguito di una delle malattie opportunistiche a cui era stato esposto dall’HIV, di cui era affetto dal 1988. Il tempo ha il suo peso e tutti noi, un giorno o l’altro, saremo storia per le generazioni successive. Tuttavia, nell’anniversario della sua morte, vorrei ricordare Daniel Bensaïd come una figura raffinata e distinta che si staglia così felicemente nel paesaggio desolato che è diventato la versione mediatica dominante della nostra vita politica.

“Non esiste storia, se non nel presente”, ha scritto Marc Bloch, grande storico ed eroico combattente della Resistenza. Il passato è un’officina aperta agli artigiani del futuro, che possono così costruire nuove vie per il futuro. Nella diversità della sua vita attiva, sia militante che intellettuale, che ho cercato di descrivere ricordando la sua morte, Daniel Bensaïd occupa un posto particolare nella generazione che in Francia è associata al maggio 1968. Insieme ad Alain Krivine, incarna una ostinata fedeltà alle rivolte iniziali, senza settarismi né opportunismi, con la differenza che, in virtù della sua originalità, la sua opera letteraria e teorica non lo ha ridotto a una corrente politica o all’organizzazione che la incarnava – la JCR, poi la Ligue communiste, divenuta Ligue communiste révolutionnaire nel 1974.

Spetta a tutti voi, che oggi ne raccogliete il testimone, valorizzare questo percorso di vita, da lui descritto in nel libro Una lenta impazienza, dove una vita vissuta fino in fondo è inseparabile da un impegno assoluto. «On s’engage, et puis on voit»: difficilmente sospettabile di bonapartismo e radicalmente contrario al potere di uno solo al comando, Daniel Bensaid amava citare le parole del futuro Napoleone I, un modo per dire che l’impegno è sempre una scommessa e un rischio, in contrapposizione ai calcoli cinici e alle rendite burocratiche. Era un critico ostinato del giornalismo, delle sue strutture e delle sue comodità, ma non ha avuto il tempo di vedere che il suo messaggio poteva anche ispirare questa professione: non è questa la sede per spiegarlo, ma la verità è che Mediapart gli deve molto.

È per onorare questo debito che pubblico qui la trascrizione del mio intervento in occasione dell’omaggio che gli è stato reso quindici anni fa, il 24 gennaio 2010, alla Salle de la Mutualité di Parigi. Naturalmente, se non ci rassegniamo all’inevitabilità dell’ordine mondiale, alle sue disuguaglianze e alle sue ingiustizie, ci saranno sempre programmi di parte e scelte strategiche che si propongono di affrontare e possibilmente rovesciare quell’ordine. Ma, qualunque sia l’esito di queste sfide, ci sarà anche, se non soprattutto, per tutta l’eternità, per conservare intatta la speranza, la necessità di una politica etica i cui fini siano inseparabili dai mezzi. Daniel Bensaïd ne era l’incarnazione.

Il merlo beffardo

Siamo qui riuniti intorno a Daniel, l’uomo, l’attivista, l’amico, il compagno, intorno alla sua vita, al suo lavoro, all’esempio che ha dato a tutti noi. E immagino Daniel che ci guarda. Lo immagino mentre prende affettuosamente in giro quelli di noi, e io sono uno di loro, che quando parlano di lui hanno “le lacrime facili”, come diceva lui. E ci tratta, con quell’accento tolosano che non riesco a imitare, da “gran coglioni”. Posso solo immaginare la sua ironia scherzosa e la sua gentilezza beffarda. Le abbiamo appena intraviste, nel breve montaggio di video d’archivio, e soprattutto abbiamo appena sentito la sua voce, quella voce ridente che ispirava idee. Sentirlo, ad esempio, a proposito del crollo di quell’impostura che portava il nome di comunismo, lanciare, come fosse un verdetto, questa associazione di idee: “Champagne e Alka-Seltzer”…

Quindi, questa ironia, questa voce. È questo che ci manca, ed è questo che vorrei menzionare per primo. Mi manca, e questa sarà la mia unica allusione a lui, per il quale era un fratello maggiore, un fratello maggiore vigile e affettuoso, tanto vigile quanto affettuoso. L’immagine che mi viene in mente, e non è un caso, quando si vede quel grande sorriso, quando si ascolta quel lieve accento, è quella di Le Temps des cerises. E proprio il brano che abbiamo ascoltato prima, quello del “merlo beffardo” Sì, vedo Daniel come un merlo beffardo.

Sappiamo che Jean-Baptiste Clément scrisse questa canzone, Le Temps des cerises, in memoria della Comune, e non la dedicò a qualcuno, ma a una donna, un’infermiera, un’autista di ambulanza per la precisione. E Louise Michel dirà di essere stata l’autista dell’ambulanza dell’ultima barricata, l’autista dell’ambulanza “dell’ultima ora” della settimana di sangue.

Non è un riferimento insignificante. Il nonno materno di Daniel, Hippolyte, un operaio parigino, aveva 14 anni durante la Comune di Parigi e fu testimone di quella settimana di sangue. Questo ricordo è stato il primo segno politico nella vita di Daniel. Il ritratto di Jean-Baptiste Clément si trovava in sala da pranzo e ogni anno, la prima domenica di maggio, al tavolo di famiglia, dovevamo alzarci e cantare, allegramente ma con un groppo in gola, Le Temps des cerises.

Quand nous chanterons le temps des cerises
Sifflera bien mieux le merle moqueur…

Quindi, il merlo beffardo, la Comune di Parigi… evocare questi riferimenti significa esprimere la coerenza di Daniel, coerenza di azione e di pensiero, di vita e di lavoro insieme. Innanzitutto è stato fedele a un passato che era pieno di presente, un passato che era un faro di speranza, un presente che è stato sovvertito da quel passato. Uno dei suoi ultimi atti è stato quello di fondare un think-tank chiamato Louise Michel – ancora la Comune. I suoi ultimi libri includono uno su Marx ed Engels e la loro corrispondenza durante la Comune di Parigi.

Ma non si tratta solo di questo rapporto molto benjaminiano, molto profetico, da sentinella messianica, con il passato. C’è l’intreccio di Daniel tra vita personale e impegno, la sua  vitalità, l’avidità, la felicità. Nessuna dissociazione tra due mondi chiusi, in cui l’uno prevederebbe l’impegno e la vita invece dall’altra parte – l’esatto contrario dell’ipocrisia. Senza che l’uno sia schiacciato dall’altro, dove la politica soffocherebbe la libertà dell’intellettuale, l’invenzione e la creazione – l’esatto contrario del dogmatismo.

Ecco cosa vorrei dire: che al centro dell’eccezione Daniel c’è questo modo di collegare totalmente forma e contenuto, modo di dire e modo di essere, convinzione e stile. La parola che mi viene in mente quando penso a lui, e non è affatto aristocratica, è eleganza, un’eleganza luminosa che non riguardava la distanza, ma la condivisione. Un’eleganza fatta di altezza, che era tutta una questione di generosità. L’esatto contrario della nostra epoca moderna, se capite cosa intendo…

È in questo senso che è stato un esempio e che, per lui, anche l’amicizia non è mai stata un compromesso, così come la giostra intellettuale. Ma sempre una lealtà da costruire più che da dire, da dimostrare più che da proclamare. È chiaro che con Daniel, e questo è ancora una volta ciò che lo rende così raro ed eccezionale, l’estetica della vita e la moralità dell’impegno erano totalmente intrecciate, davvero totalmente intrecciate.

Dietro, c’è una questione politica centrale: con l’esempio, come inventare un altro modo di fare politica che non sia l’eterna politica politicante? Daniel è l’erede, il simbolo e, spero, non l’ultimo, di una grandissima tradizione nata dall’emergere della questione sociale, del movimento operaio e del movimento socialista: intellettuali che non stavano in camera da letto, intellettuali che erano responsabili nell’azione, intellettuali che erano vincolati dal collettivo o che attingevano totalmente al collettivo. Intellettuali che non separavano il pensatore dall’attivista.

Ma in Daniel, in tutta questa lunga genealogia, c’è un contributo, un’originalità. E che riguarda il suo modo di rompere con visioni dogmatiche di un progresso inevitabile, di un tempo lineare, di una storia scritta. Si tratta della capacità di collegare politica e poesia. L’atteggiamento di Daniel, la sua scrittura, i suoi libri testimoniano questo modo di incantare la politica con una visione poetica. Come dice alla fine di Una lenta impazienza: “L’occhio della poesia vede talvolta molto più lontano dell’occhio della politica”. Non si tratta di opporre le due cose, al contrario. È solo che questa visione poetica è un reincanto della politica, una sovversione della realtà alla maniera del movimento surrealista. Non è un caso, d’altronde, che i primi a denunciare il Ministero dell’Identità Nazionale, in un testo superbo, siano stati proprio dei poeti, e penso a Édouard Glissant e Patrick Chamoiseau.

L’idea, dunque, di collegare poesia e politica. All’inizio del libro Le pari mélancolique, c’è questo verso del poeta Mallarmé: Toute pensée émet un coup de dés… Questa malinconica scommessa, continua Daniel, sulla “improbabile necessità di rivoluzionare il mondo”. Ha una conseguenza che è un’esigenza per noi. È proprio l’idea che questa improbabile necessità nasca dal confronto con il presente. L’indignazione”, ha detto, ”è all’inizio. È un modo per alzarsi e andare avanti. Ci si indigna, ci si indigna e poi si vede.

Questa lunga storia di cui Daniele è testimone, questa lunga storia in cui è stato la sentinella di un passato pieno di presente, ci impone di essere nel presente. Significa incontrare il presente per essere all’altezza del passato. Questo è ciò che ha trovato nell’opera di Charles Péguy, insolita nei canoni della letteratura socialista; è ciò che ha trovato nelle sue figure amate, spesso figure femminili. Penso a Giovanna d’Arco. Ma penso anche a Rosa Luxemburg. Rosa Luxemburg che, nelle sue Lettere dal carcere, ci ha dato una lezione di vita molto simile alla lezione di vita degli ultimi anni di Daniel. In una delle sue lettere, parlando di tutti i mali della vita – dolore, separazione, nostalgia – ci siamo anche noi oggi – diceva: “Nella vita sociale come in quella privata, dobbiamo prendere tutto con calma, con generosità e con un piccolo sorriso sulle labbra”. Un piccolo sorriso…

Ecco, Daniele ha scelto la sua resistenza, ma non ha scelto, e non lo facciamo nemmeno noi, le sue sofferenze. Ma esse vi rivelano e ci rivelano agli altri. La sua prova non è stata la prigione, ma la malattia. E, naturalmente, quella malattia ce lo ha portato via troppo presto. Ma allo stesso tempo, nel modo in cui ha affrontato quella prova, c’è stato un miracolo, un miracolo che ci lascia in eredità.

Il tempo era poco, e così un libro seguiva l’altro. E forse ci sarebbero stati meno libri, meno lavoro, meno lenta, ostinata impazienza di scrivere, di raccontare, di trasmettere, di condividere, se non ci fosse stata la sua malattia. Perché quando si trattava di discutere di idee e di scrivere, Daniel non era mai accademico, non era mai autorevole, ma condivideva sempre, trasmetteva sempre.

Tutti i suoi libri sono qui, è il suo regalo. Tutti i Daniel sono qui, tutti i nostri Daniel sono qui. Un Daniel che non era un post-romano, e in questo senso la sua opera non appartiene a lui, appartiene a noi, appartiene a voi ora. E leggendola, rileggendola, capiremo meglio cosa ci unisce qui, nella diversità dei nostri modi di resistere allo spirito del tempo.

Una fedeltà che è una richiesta, che ci obbliga. Daniele odiava la colla generazionale. Non apparteneva a una generazione, ma a un’eternità. È il passaggio da una generazione all’altra, di più generazioni alle altre, da un mondo all’altro. È di più generazioni, di più tempi, di quel tempo intempestivo che è l’emergere dell’evento, di quella che chiamiamo anche rivoluzione.

Questo è Daniel. È una giovinezza. Giovinezza eterna. Non è solo la nostra, non è solo quella del passato, è quella di tutti coloro che possono condividerla, è quella del mondo. È la giovinezza del mondo, nel senso che è eternamente minacciata e allo stesso tempo eternamente ricreata.

Infine, qual è questa eredità per tutti noi, questa richiesta? Come abbiamo visto, tutta l’opera di Daniel lo testimonia, tutta la sua carriera di attivista lo testimonia, tutta la sua vita lo testimonia: radicalismo democratico, internazionalista, sociale ed ecologico. Quindi, se diciamo addio a Daniel, l’apripista, la sentinella, è per salutare l’indignazione poetica, la rabbia profetica e la rivolta logica.

È così che gli resteremo fedeli.